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Luigi Zoja
Contro Ismene. Considerazioni sulla violenza,
Bollati Boringhieri, Torino, 2009

di: Federico Abati


Si uccide per paura, per il potere, per una spinta, violenta quanto distruttiva, alla sopravvivenza, ma si uccide anche per creare vita nuova, vita “giusta”; si distrugge per plasmare nuove forme, coscienti di fare un atto di giustizia inevitabile.
Da questo affascinante paradosso parte Zoja per attaccare l’assioma dell’essenza caritatevole dell’essere umano, portando degli esempi che vanno dall’Impero Romano alla Conquista spagnola, dalla Nuova Frontiera americana alle guerre mondiali e provano che contestano la generale convinzione che la violenza, provocata o sofferta, sia occasionale e disumana.
L’uomo uccide uno, cento, mille altri uomini, l’avanzare della tecnologia lo ha aiutato in questa moltiplicazione che ha eliminato la visione reale del sangue e il suo odore; uccide partendo da un’ideologia o da una religione, da fedi che non ammettono tentennamenti, per estirpare quella che, a suo giudizio, è la parte malata dell’umanità; le innumerevoli circostanze che lo portano al successo certificano a se stesso e agli altri la giustezza della sua opera e il beneplacito del Dio di turno che l’ha favorita, trasformandolo in strumento divino, onnipotente, cioè infallibile.
E questo circolo vizioso che sta alla base delle guerre, piccole prima, mondiali poi: non due forze contrapposte che vogliono impossessarsi dei beni e del potere dell’avversario, ma ognuna delle due che si erge a portatrice di giustizia per punire l’altra, colpevole dei più gravi delitti di ordine morale o materiale.
Quindi l’uomo vive di luce e di ombra, ed è proprio questa ambivalenza che lo rende complesso e capace di creare tanto il fango quanto il genio. Non accettare questa ombra ci tiene eternamente in conflitto con i sensi di colpa generati dalla nostra mancata perfezione.
Peccato per i troppi e ripetitivi esempi che diluiscono lo sfondo sul quale brilla adamantino questo concetto dal così forte impatto emotivo da meritare, da parte del lettore, una personale e viscerale elaborazione. Un esempio tra i tanti è particolarmente significativo, quello della guerra di trincea in cui uno schieramento sparava sull’altro perché era una minaccia alla propria sopravvivenza; lo stesso schieramento, di fronte al nemico che si arrendeva disarmato, si sentiva ugualmente minacciato, psicologicamente stavolta, dal ruolo umano che assumevano tutti quei soldati dalle mani alzate che rispecchiavano le sue stesse paure.

(Rebibbia, luglio 2009)
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