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Meditazione

 

Freddy

 

Dopo la sentenza della Corte d’Appello, le guardie gli misero un cinturone di cuoio attorno alla vita, le manette ai polsi e per sicurezza anche le catene. Il tutto venne stretto così forte che Derf faticava a respirare, chiese alle guardie di allentare un po’ la presa, ma non gli risposero. Caricato sulla camionetta fu riportato al carcere di Olomouc, dove già era trascorso un anno dalla sua carcerazione.

Giunto in sezione in fondo al corridoio, una guardia gridò qualcosa a un detenuto: «Ora ti faccio vedere io com’è la storia!» Prelevò il malcapitato e lo picchiò senza pietà. Derf non diede importanza al fatto, era un film già visto più volte, ormai questi episodi lo lasciavano indifferente, aveva altro a cui pensare. Entrato in cella si buttò vestito sul letto e si sfilò i mocassini neri. Era autunno, dalla finestra poteva percepire il profumo delle foglie, vedere gli alberi al di là del muro divisore, sentire il rumore delle macchine. La vita, nonostante tutto, continuava. Ma il suo stato d’animo era abbattuto. Tutti i suoi progetti erano crollati dopo l’esito della sentenza. La sua psiche distrutta. Da un momento all’altro si era trovato catapultato in un'altra dimensione, non sapeva cosa pensare, cosa gli avrebbe riservato il destino. In pochi minuti gli passò davanti tutta una vita: i ricordi, la famiglia, gli amici… In quel momento avrebbe voluto morire. I suoi compagni di cella parlottavano, ma non riusciva a capire nulla poiché già la lingua era un rebus per lui, se parlata sottovoce, poi! Aveva voglia di riposare, ogni tanto gli veniva in mente qualcosa, ma in un batter d’occhio tutto sfumava. Nonostante lo shock, vi era ancora un fievole barlume di speranza, poiché questa è sempre l’ultima a morire. Ormai aveva toccato il fondo, doveva risalire la china. Gli mancava la musica con le sue mille varianti, che gli dava un senso di libertà, difficilmente gliel’avrebbero fatta ascoltare, quindi doveva trovarla da un'altra parte.

All’indomani vennero due guardie con un foglio da fargli firmare, ma Derf si rifiutò: non capiva cosa vi era scritto e gli imbrogli erano all’ordine del giorno. Poco tempo era accaduto che un detenuto avesse firmato un foglio senza controllare il contenuto; in seguito era venuto a conoscenza che quel documento era la confessione di un omicidio.

Più tardi fu portato ai piani superiori e messo in isolamento, la cella era piccola e tetra sia il letto che lo sgabello erano murati. La sera stessa fu espropriato di tutti i suoi effetti personali, gli lasciarono solamente il kit dell’igiene, qualche indumento intimo e una tuta. In quel frangente, forse, neanche la meditazione lo avrebbe potuto aiutare, ma la stanchezza prese il sopravvento, era talmente esausto che i muscoli non rispondevano più al cervello. Si addormentò in un sonno profondo. Quando era ancora buio sentì aprire il blindo della propria cella e sobbalzò sul letto: ma che succede? Era il momento di essere trasferito in un altro carcere, non sapeva ancora dove lo avrebbero portato. Salì sul bus, incatenato, assieme ad altri detenuti, le catene stridevano da mettere i brividi, che suono deprimente! Vi era anche una donna fra i detenuti, seduta in prima fila, guardandola meglio si accorse che quella cascata di capelli biondi nascondeva un viso molto giovane. Una bella ragazza, ben proporzionata, i suoi lineamenti dolci lasciavano intendere la giovane età: sì e no vent’anni, una fanciulla di charme. Questa ragazza in un'altra situazione, vestita a dovere, magari con un abito lungo con spacco, avrebbe potuto esprimere tutta la sua classe, ma ora i suoi occhi fissavano il vuoto. Dal fermento che si stava propagando nel bus, capì che stavano giungendo a destinazione. Un detenuto con una voce tirata esclamò: «Questo è Valdice.» Quello seduto a fianco di Derf, uno zingaro grosso e antipatico dall’aria aggressiva, urlò: «Maledetto Valdice, accadono tante brutte cose lì dentro!» La guardia lo minacciò, ma il brutto ceffo continuò a imprecare per conto suo.

Il carcere di Valdice è un ex convento, conosciuto anche con il nome di Fortezza. Nel 1635 René Descartes (1596 - 1650), noto col nome italianizzato di Cartesio, filosofo, scienziato e matematico francese, considerato il fondatore della filosofia moderna, si recò in questo luogo, ben accolto dalle monache, onorate di ospitare un luminare di quel calibro. Qui fondò un centro di studi, e approfondì le sue teorie sulla metafisica e sul mondo naturale e nel 1641 pubblicò le Meditazioni metafisiche, quelle in cui c’è il celebre motto: “Cogito, ergo sum” (“Penso, dunque esisto”). In seguito, durante il comunismo, qui venivano incarcerati, oltre a detenuti di vario genere, anche gli oppositori del regime e sottoposti a torture sia fisiche sia psichiche; anche Vaclav Havel, poi divenuto presidente, conobbe questo luogo. Oggi sono rinchiusi i peggiori criminali del Paese.

A Valdice scesero circa dieci detenuti, fra cui Derf. L’impatto fu terribile: da ambo i lati le guardie formavano un cordone, armati di fucili a pompa, con cani al guinzaglio che abbaiavano minacciosi. A un certo punto una guardia aizzò contro un detenuto il cane, che partì mordendolo al polpaccio e facendolo cadere; poi, non contento, lo azzannò alla testa, il sangue uscì a fiotti. Il disgraziato fu salvato da un paio di guardie che intervennero. Dopo che tutti ebbero assistito alla scena, il maggiore gridò: «Benvenuti a Valdice! Questa sarà la vostra casa per un bel po’». Al suo fianco, il direttore, un ubriacone psicopatico, sorrideva come fa il boia mentre tira la leva che apre la botola.

Tutta la scenografia dava a Derf l’impressione di stare sul set di un film americano, in cui doveva recitare una parte. Gli piaceva immedesimarsi in quella di un ufficiale che, per evitare un conflitto tra USA e URSS, aveva ucciso un generale d’armata guerrafondaio e ultranazionalista, e la sua cricca, e da eroe si era assunto tutte le responsabilità. Che immaginazione!

Dopo i preliminari fu portato al reparto D; una guardia, antipatica e ottusa esclamò: «Ah, ecco i nuovi condannati. Qui dovete rigare dritto altrimenti peggio per voi!».

La cella misurava 26 m/q, tredici detenuti, i letti disposti a castello, il pavimento composto di assi di legno. Derf prese posto nell’angolo, su un letto a castello vicino alla finestra. Almeno potrò respirare, pensò. Sentiva la mancanza della musica, con le sue melodie, suoni di vario genere, questo lo avrebbe rilassato.

Il regime carcerario era molto pesante: la sveglia suonava alle ore 04:30, una specie di tromba rintronante, come si usava nei lager. Le guardie facevano il giro sbattendo il manganello contro le celle per rendere la cosa più eterogenea. I detenuti dovevano alzarsi e mettersi l’uniforme: una camicia orrenda color “materia grigia”, pantalone e giacca di iuta. Dopodiché molti andavano a lavorare nelle varie officine. Dalla sveglia fino alle ore 21:00 era assolutamente vietato dormire sotto le coperte. L’ora d’aria era dalle ore 08:00 alle ore 09:00. Il cibo era pessimo, servito nelle gavette d’alluminio. Per non parlare degli educatori, che all’epoca del regime erano aguzzini, poi, smesse le uniformi, ebbero il privilegio di educare i detenuti. Da non credere! Addirittura vi era un educatore che anni addietro, quando suo padre faceva ancora il giudice, diceva : «Mio padre vi condanna e io vi torturo ». Questa era la mesta mentalità di Valdice.

Qui Derf doveva trovare un rimedio: la mente era sottoposta a sforzi incredibili, il 90% dei detenuti sembravano zombi. Camminavano come automi, gli sguardi senza espressione, sembravano perseguitati da fantasmi, per come si fissavano l’un con l’altro. Quel carcere era un luogo per anime senza pace, la maggior parte dei detenuti erano come manichini truccati per nascondere agli altri la loro vera identità. La verità era una sola: se non sei mentalmente forte, sei destinato a soccombere in un modo o nell’altro. Molti detenuti, soprattutto zingari e ucraini (che tra di loro non andavano d’accordo), erano abili nell’individuare i soggetti mentalmente e fisicamente più deboli per poterli minacciare e importunare, approfittavano di queste situazioni per derubarli. Delle vere iene. Il mondo d’oggi è una giungla d’asfalto, dove la gente corre a destra e sinistra, senza sapere cosa voglia veramente.

«Questo non è il mio mondo, non farò mai questa fine», si diceva Derf. Non si doveva lasciar prendere da strani pensieri…. Dopo un paio di giorni decise che avrebbe cominciato la meditazione. Chissà cosa avrebbero pensato i compagni di cella, ma questo non lo toccava minimamente….

Derf è seduto sul letto con le gambe incrociate, le mani sulle ginocchia, immobile come una statua di granito… senza lasciar trapelare la minima insicurezza. Nonostante gli occhi chiusi, ha l’impressione di essere osservato. Il pregio di Derf è di percepire l’energia del prossimo, gli basta un semplice sguardo per capire se la persona che gli sta davanti è positiva o negativa, il più delle volte la riteneva negativa: non si sbagliò mai, in seguito i fatti gli davano ragione.

Quando medita, viaggia: se il suo corpo è in quella squallida cella la sua mente è altrove. Eccome se viaggia! Lo yoga gli dà l’energia, la forza psicologica e fisica di resistere alle dure condizioni carcerarie a cui è sottoposto. Ogni tanto qualche barlume di memoria invade la sua mente, ma subito si dissolve. Lo yoga per Derf è molto importante: medita, viaggia con la mente, allena il corpo. È solo, deve fare affidamento esclusivamente sulle sue forze per non cadere nel baratro dell’incoscienza. Lo yoga è anche una sorta di stretching nobile, perché gli permette di stare in armonia col proprio corpo. Ogni giorno medita, non vuole essere contaminato dalle altre creature, perché lui deve viaggiare e di notte riposare nella maniera più tranquilla possibile. Ogni mattina, quando apre gli occhi, ringrazia il Signore per avergli concesso un altro giorno di vita, per poter resistere e vincere questa dura battaglia. Quando si concentra bene, riesce a vedere la sua mano svitata e agile sul manico di una chitarra elettrica, e il suono rabbioso di un assolo che pare una corsa su per una scala che gira e gira e sale verso l’alto e sembra non avere mai fine.

Non deve deconcentrarsi, nessun rumore deve minare il suo viaggio. Sente il brusio delle spazzole sul rullante di una batteria o il fiato umido e caldo di una donna che si fa strada a fatica nell’imbuto tortuoso di un sassofono e diventa una voce d’umana malinconia, la fitta acuta del rimpianto per qualcosa di bello che si possedeva e che si è sbriciolato nel tempo, corroso nel tempo.

Può ritrovarsi seduto proprio nel mezzo di una sezione d’archi sorvegliando da sopra la spalla il movimento rapido e leggero dell’archetto del primo violino o infilarsi senza sospetto fra le volute sinuose di un oboe o fermarsi ad osservare dita dalle unghie curate che si agitano nervose dietro le corde di un’arpa come animali selvatici dietro le sbarre di una gabbia. Questa energia positiva lo preserva dalle tenebre e lo rende immune dagli altri detenuti. Può accendere e spegnere quando vuole quella musica che, come tutte le cose immaginarie, è perfetta e sublime. Nessuno gliela potrà togliere. Là dentro c’è tutto quello che gli serve, tutto il suo passato, presente e futuro. Nessuno può scalfire la sua mente, i suoi pensieri. Non fa vedere le sue sofferenze, non vuole compiacere gli altri. La musica basta e avanza per viaggiare chissà dove e sconfiggere la malinconia. Lo aveva detto a qualcuno una volta: la musica è tutto quando è corroborata da una meditazione minuziosa che ti permette di spaziare da un luogo all’altro, è l’inizio e la fine di un viaggio, la musica è il viaggio stesso. Lo hanno ascoltato, ma non gli hanno creduto.

La cosa che non gli potevano mai prendere erano i suoi pensieri, i suoi progetti futuri, il suo desiderio di conoscere sempre qualcosa di nuovo e utile. No, non ha alcun timore di quella situazione deprimente, della solitudine, malinconia e nostalgia che si annida in ognuno di loro, che giorno dopo giorno mostrano segni di resa allo sconforto e alle angosce più terribili. Questo è l’obbiettivo dell’amministrazione carceraria. E’ vero che la pulce è un essere vivente, e anche molto sgradevole, ma deve essere resa inoffensiva. Così trattavano i detenuti di Valdice.

Derf fa l’impossibile per non dargli questa soddisfazione, ha sempre un mezzo sorriso che fa infuriare le guardie e gli educatori. La sua forza è la calma. Un vecchio proverbio cinese dice: «Aspetta sulla riva del fiume che il cadavere del tuo nemico passi». Lui non appartiene a quel mondo del non ritorno, e poi … non è solo. Mai, nemmeno in quel frangente. Nessuno potrebbe accettare la situazione così degradante in cui lui si trova senza mettersi a sbattere la testa contro il muro o a urlare come un matto. Lui non ne sente il bisogno. Anzi, non sente nemmeno il bisogno di parlare…. Appoggia la testa al muro chiudendo gli occhi, li sottrae solo per qualche istante allo squallore di quella cella, di quell’energia negativa, di quell’atmosfera che si potrebbe tagliare con un coltello; non lo fa per timore, ma perché vuole sfidare tutto ciò che il destino gli ha assegnato, per poter dire un giorno: «Io non ho ceduto, ho resistito, e ora rieccomi qui pronto per continuare a vivere la mia vita».

Sorride, mentre la voce arriva forte e chiara nella sua testa. Un altro giorno è passato. Domani si vedrà.

 

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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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