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Dall’offesa alla relazione.
Mediazione penale e giustizia ‘ricostruttiva’
Federica Resta


SOMMARIO: 0. Premessa - 1. Il ruolo della vittima nel procedimento penale – 2. Mediazione, conciliazione e giustizia penale di pace 3. Mediare per rieducare 4. Restorative justice- 5-Pena e perdono- 6. La pace e l’ordalia – 7. Arcana  imperii - 8. Punire o ricordare?- 9. Giustizia senza pena?



“Il diritto non condanna al castigo,
ma alla colpa(..). Il giudice può vedere destino dove vuole;
in ogni pena deve ciecamente infliggere destino. L’uomo non ne
viene mai colpito, ma solo la nuda
vita in lui”
(W. Benjamin, Destino e carattere, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it., Torino, 1981).



“L’alternativa al perdono, ma non il suo opposto, è la pena, che ha in comune col primo il tentativo di porre un termine a qualcosa che senza interferenza potrebbe proseguire indefinitamente. E’ quindi significativo (…) che uomini siano incapaci di perdonare ciò che non possono punire e di punire ciò che si è rivelato imperdonabile”
(H. ARENDT, Vita activa, (1958), trad. it., II ed., Milano, 1988, 178).

0. Premessa

La storia del diritto penale si è da sempre costruita attorno al tentativo, più o meno intenso e riuscito a seconda delle epoche e delle società, di  minimizzazione della violenza e della forza, secondo i codici del sacrificio, della vendetta, della composizione, ed infine della pena, che innervano profondamente la logica e il lessico del rapporto colpevole-vittima-Stato.Il nucleo fondativi di questo processo è già presente, sia pur in nuce, nel pensiero dei tragici greci, ed in particolare di  Eschilo, che descriveva il giudizio sull’uccisione, da parte di Oreste, della madre Clitemnestra e del suo amante, per vendicare il padre Agamennone, quale percorso che conduceva dalla logica della pura vendetta, all’intervento istituzionale nel giudizio del ‘terzo’. Nell’Orestea, il collegio giudicante istituito da Atena rappresenta l’organo deputato a sanzionare la violazione di un tabù sacrale, la reazione della polis rispetto all’atto matricida, che rendendo fragile e vulnerabile la comunità esige un intervento punitivo pubblico che ristabilisca l’equilibrio violato, la Dike . Come sottolinea Manna, l’atto pubblico del giudicare segna il distacco e la separazione (krinein) tra giustizia e vendetta. Il passaggio dalla collera vendicatrice della famiglia offesa, alla reazione di <<orrore collettivo di fronte al sacrilegio>> segna la nascita del carattere statuale e pubblico della pena . Tale percorso ha caratterizzato, come osserva Manna, in maniera preponderante, la struttura e lo sviluppo dei moderni sistemi penali,  nei quali le istanze della vittima, nei confronti del reo, sono progressivamente confluite - benchè in posizione accessoria – nel contesto dell’esercizio pubblico dell’azione penale, parallelamente all’avvenuta monopolizzazione statale della forza punitiva e del controllo della violenza. La presenza effettiva della vittima, la sua funzione e il suo ruolo all’interno dei moderni sistemi penali non sembra però adeguatamente valorizzata, apparendo anzi a volte meramente tollerata a fatica. Di fatto sostanzialmente estromessa dal processo, sentita limitatamente e nella misura in cui possa servire alla ricostruzione del fatto storico che ha dato origine al reato, la vittima sembra scomparire dallo scenario e dalla sintassi del rapporto reato-responsabilità-pena, che si risolve in una relazione esclusiva ed escludente tra lo Stato e il colpevole, verso il quale il primo esercita, a nome della comunità, (si ricordi che le sentenze sono pronunciate ‘in nome del popolo’), e quindi anche per conto della vittima, la propria pretesa punitiva. Eppure, forse altri scenari sono possibili, soprattutto ove si rifletta che se la pena, nelle forme e nei contenuti che la caratterizzano nella realtà attuale, dimostrandone una crisi profonda, rischia di non servire né al reo né allo Stato, potrebbe forse allora trovare una legittimazione qualora possa servire almeno in parte alla vittima, sempre che si sia disposti a ripensare la pena e lo stesso diritto penale secondo un paradigma diverso.
Di fronte alla crisi della pena e del diritto penale in generale, si può quindi pensare a un modello diverso per la giustizia penale, che tenga conto del rapporto tra vittima e autore, per riscrivere secondo un paradigma dialogico, ricostruttivo, conciliativo, (dunque non solo ed esclusivamente conflittuale) il fondamento, la funzione e lo scopo della giustizia penale?
A questa domanda potremo rispondere soltanto dopo un’analisi di alcuni nodi fondamentali dell’attuale sistema penale (non solo italiano), rilevando l’importanza che su questo terreno riveste la ‘sfida’ della mediazione  e del paradigma conciliativo al quale i diversi istituti mediativi si orientano.



1. Il ruolo della vittima nel procedimento penale

La questione del ruolo e della posizione della vittima nel processo penale è stata oggetto di numerosi contrasti ed eccezioni di costituzionalità. E’ stata infatti diverse volte sollevata questione di legittimità costituzionale della relativa disciplina codicistica – in particolare, degli artt. 497, comma secondo, e 197, comma primo, del codice Vassalli, e, nel regime previgente, degli artt. 197 e 208 c.p.p., ovvero dell’analoga disciplina dettata dal codice del 1930 -  ravvisandosi possibili violazioni degli artt. 3 e 24 Cost .
In relazione al codice di rito del 1930, le questioni di legittimità costituzionale si sono riferite al regime relativo alla deposizione testimoniale della parte civile, ed alla disciplina dell’interrogatorio dell’imputato . Rispetto a tali eccezioni, la Corte ha ritenuto infondate le questioni sollevate,  aderendo alla tesi dell’Avvocatura Generale, secondo cui, sulla base di una scelta del legislatore  <<non irragionevole>>, la subordinazione dell’azione civile alle esigenze relative all’accertamento dei reati si configura nel nostro sistema, quale componente correlata all’interesse pubblico a tale accertamento. Tale interesse è ritenuto preminente rispetto a quello relativo alla risoluzione delle liti civili, soprattutto  quando lo stesso fatto (oltre a rappresentare un  illecito aquiliano) integri anche gli estremi di un illecito penale, evidenziandosi così l’opportunità di evitare contrasti tra giudicati . I giudici rimettenti argomentavano in proposito, a sostegno delle eccezioni sollevate, rilevando i profili relativi alla discrezionalità, rimessa all’offeso nelle ipotesi di reati perseguibili a querela, in ordine alla scelta della giurisdizione da adire. In proposito la Consulta rilevava tuttavia che, a prescindere dalla specifica responsabilità dell’offeso querelante per il reato di calunnia, lo svolgimento del processo penale in tali casi <<non rimane sottratto alle valutazioni degli organi giudiziari>> .   Si è inoltre evidenziato il ruolo essenziale dell’offeso, costituitosi parte civile, , ai fini probatori, dal momento che spesso egli costituisce (se non l’unico) il principale testimone, che possa ricostruire storicamente i fatti dedotti in giudizio. Ciò, secondo la Corte, non implicherebbe alcuna disparità di trattamento tra l’imputato e la parte civile - soggetta, a differenza del primo, all’obbligo del giuramento ed alla possibile incriminazione per falsa testimonianza -. Infatti, a prescindere dalla sostanziale diversità delle rispettive posizioni sostanziali e processuali, <<l’integrale applicazione, nel giudizio penale, del principio del libero convincimento del giudice, ne fonda la potestà di valutazione critica dell’attendibilità delle prove, in riferimento tanto all’interesse che possa aver mosso la parte civile a rendere dichiarazioni volte al trionfo dell’accusa, quanto, per converso, alla credibilità che possano meritare le difese dell’imputato>> . Affini a queste argomentazioni (salvo per il fatto di limitarsi a censurare la ritenuta violazione del principio di eguaglianza tra le parti, con esclusivo riferimento all’imputato), quelle addotte, di recente, dai giudici rimettenti, a sostegno delle eccezioni di legittimità costituzionale della disciplina prevista dal codice di rito attuale, in materia di testimonianza della persona offesa, costituitasi parte civile nel giudizio penale. I giudici rimettenti hanno in proposito prospettato la violazione dei principi costituzionali di eguaglianza e del diritto inviolabile alla difesa, in ogni stato e grado del procedimento, con riferimento a norme del codice (ad esempio, il secondo comma dell’art. 497), nella parte in cui non contemplano il divieto di esaminare, in qualità di testimone, la persona offesa dal reato costituitasi parte civile, così sottoponendola -benchè interessata all’esito del giudizio - all’obbligo di dire la verità e di prestare giuramento, così consentendo, di fatto, che la prova della colpevolezza dell’imputato <<si basi esclusivamente o quasi esclusivamente sulle sue dichiarazioni>>, determinando una situazione processuale di <<squilibrio>> tra le parti . Si è inoltre sostenuto, da parte dei giudici rimettenti, che, in relazione al valore da attribuire alla deposizione della  persona offesa, nonostante alcune sentenze della Corte abbiano rilevato che tale testimonianza deve essere valutata <<con ogni opportuna cautela, potendo essere assunta, quale fonte di prova, unicamente ove sottoposta ad un riscontro di credibilità oggettiva  e soggettiva sorretto da adeguata e coerente giustificazione>>, altro indirizzo della giurisprudenza di legittimità, ha affermato che <<può attribuirsi piena efficacia probatoria alla testimonianza della persona offesa dal reato, qualora ne sia accertata l’intrinseca coerenza logica, anche quando essa costituisca l’unica prova e manchino elementi esterni di riscontro>> . I giudici a quibus osservano inoltre che nella prassi, la <<stragrande>> maggioranza dei procedimenti penali aventi origine dalla denuncia-querela della parte lesa, si fonda esclusivamente <<sulla prova fornita dalla deposizione del querelante-persona offesa, quasi sempre costituitosi parte civile, ovvero sulle deposizioni dei suoi prossimi congiunti, per i quali neppure è previsto il divieto di testimoniare o la facoltà di astenersi dal deporre, come invece per i prossimi congiunti dell’imputato>> . Si determina così l’effetto, criticato dai rimettenti, che, se il giudice applicasse i principi sulla testimonianza della persona offesa sanciti dall’indirizzo giurisprudenziale più restrittivo, il processo penale quasi sempre <<si dovrebbe concludere con l’assoluzione dell’imputato>>. Al contrario, qualora il giudice basasse la propria motivazione di condanna esclusivamente sugli elementi di prova forniti dalla persona offesa, <<ne verrebbe (e di fatto ne viene) fortemente inficiato il principio di uguaglianza tra le parti>>, così violando le norme costituzionali di cui agli artt. 3 e 24 .  La Consulta ha sistematicamente concluso per la manifesta infondatezza delle eccezioni sollevate, da un lato richiamando la motivazione delle pronunce relative al regime previgente, e, dall’altro, osservando che non sussista la necessità di introdurre nell’ordinamento un divieto di testimonianza della parte civile, poiché l’orientamento più rigoroso della giurisprudenza di legittimità ha già compiutamente  individuato parametri e criteri, tali da scongiurare la possibilità di un’acritica acquisizione agli atti del processo di dichiarazioni la cui oggettività non sia fondatamente accertata e valutata con rigore .
Dal tenore delle eccezioni di legittimità costituzionale sollevate, anche recententemente, con riferimento al regime della testimonianza della persona offesa, può quindi evincersi come la presenza della vittima nel processo penale sia, ancora, a fatica tollerata.  



2. Mediazione, conciliazione e giustizia penale di pace

Istituti rilevanti sotto il profilo della logica riparativa e compositiva del conflitto ingenerato dal reato, in una prospettiva dunque ‘attenta alla vittima’, possono in parte rinvenirsi nell’ambito della normativa inerente la competenza penale del giudice di pace e, in misura diversa, con riferimento alla giustizia minorile . In merito al primo profilo, rileva la norma di cui all’art. 35 del d.lgs. 274/2000, che prevede la definizione del giudizio con sentenza di estinzione del reato, previa audizione delle parti e dell’eventuale persona offesa, qualora l’imputato dimostri di avere, prima dell’udienza di comparizione, riparato il danno derivante dal reato, mediante le restituzioni ed il risarcimento, e di avere eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato stesso. La citata disposizione subordina la declaratoria di estinzione al positivo vaglio giudiziale d’idoneità, delle attività risarcitorie e riparative, a soddisfare <<quelle esigenze di riprovazione del reato>> e <<di prevenzione>> che attengono tipicamente alla pena, conformemente alle funzioni di interesse pubblico connesse alla valenza <<parapunitiva>> dell’istituto della riparazione estintiva . Si sancisce altresì che il giudice possa disporre la sospensione del processo, per un periodo non superiore a tre mesi, su istanza dell’imputato e con eventuale imposizione di prescrizioni, al fine di consentire al reo, il quale dimostri di non aver potuto provvedervi in precedenza, di realizzare l’attività risarcitoria e riparativa. In tale contesto, l’ipotesi di ravvedimento operoso del reo esplica efficacia non meramente quoad poenam (come invece avviene in ambito codicistico), ma assurge al rango di causa estintiva del reato, il che sottende evidentemente una logica premiale polarizzata sull’idea di reintegrazione del bene giuridico leso, con conseguente sensibilizzazione delle esigenze della vittima, le quali pertanto rappresentano l’oggetto ed il fine dell’onere connesso al beneficio. Lo stesso vaglio giudiziale in ordine alla ‘equivalenza sanzionatoria’ delle condotte riparatorie sembra finalizzato a garantire un equilibrio tra le considerazioni di interesse generale - assorbite nelle valutazioni inerenti le esigenze di riprovazione del reato e di prevenzione, di cui all’art. 35 – e quelle relative alla soddisfazione dell’interesse concreto della persona offesa. L’istituto dell’estinzione del reato per condotte riparatorie (che riprende il modello tedesco della composizione autore-vittima) appare pertanto suscettibile di assolvere, da un lato, a rilevanti finalità di soddisfacimento delle esigenze della vittima, e, dall’altro, a funzioni di prevenzione speciale (positiva e negativa), sol che si consideri come l’attività riparativa posta in essere dal reo ne dimostri la percezione del disvalore dell’illecito commesso, così favorendone la risocializzazione, intesa quale accettazione e con-formazione alla Stufenbau assiologica socialmente con-divisa.
L’ampiezza della discrezionalità assegnata al giudice di pace in tale valutazione appare tuttavia suscettibile di valorizzare, nell’ambito dell’istituto della riparazione estintiva, tanto la componente ‘orientata alla vittima’, quanto quella, di stampo retributivo, finalizzata a privilegiare le esigenze di prevenzione generale e di <<riprovazione del reato>>.
Ed invero, pur a fronte di attività riparatorie idonee a ristorare adeguatamente la vittima, contestualmente eliminandone gli effetti dell’offesa, ben potrebbe il giudice privilegiare diversi, concorrenti fattori <<(quali, ad esempio, la spiccata gravità del fatto o la notevole capacità criminale palesata dal reo) al fine di negare l’effetto estintivo ex art. 35 e di applicare, in esito alla ponderata valutazione di tutti gli interessi coinvolti, la sanzione penale>> .
La norma in esame appare pertanto suscettibile di duplice lettura e di opposti esiti in sede applicativa. Tuttavia, considerazioni di carattere sistematico dovrebbero, a nostro avviso, far propendere l’interprete verso una valorizzazione dei profili più marcatamente ispirati alla logica ed ai principi della giustizia ‘conciliativa’. La normativa inerente la competenza penale del giudice di pace appare infatti permeata da finalità di tipo conciliativo; espressione ancora più pregnante di quella di ‘mediazione ’, che attiene invero, più propriamente, alle procedure tese a favorire la comunicazione tra le parti, prima ancora che al perseguimento della composizione del conflitto, che può, al più, rappresentare il risultato, meramente eventuale, del procedimento mediativo.
Il secondo comma dell’art. 2 del d.lgs. 274/2000 sancisce invero - con disposizione dall’indubbia valenza euristica e programmatica, e tale da impedire che la stessa denominazione dell’autorità che istituisce si traduca in un ossimoro  - che <<nel corso del procedimento, il giudice di pace deve favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti>>. La rilevanza della finalità conciliativa del procedimento instaurato innanzi al giudice di pace  è peraltro ribadita dalle norme di cui ai commi quarto e quinto dell’art. 29, a tenore delle quali <<il giudice, quando il reato è perseguibile a querela, promuove la conciliazione tra le parti>>, potendo avvalersi sinanche dell’attività di mediazione di centri e strutture pubbliche o private. Si tratta della prima previsione espressa, nel nostro ordinamento, della possibilità di ricorrere alla mediazione penale, benché non ve ne fosse esplicita menzione nella legge delega 468/99, il cui art. 17, comma secondo, lett.g), dispone il più generico obbligo, per il giudice di pace, di <<procedere al tentativo di conciliazione sugli aspetti riparatori e risarcitori conseguenti al reato, nonché in ordine alla remissione della querela ed alla relativa accettazione>> (c.a.). Argomenti, questi, che dovrebbero indurre ad orientare, in sede prasseologica, il vaglio giudiziale di cui all’art. 35, in una prospettiva ‘attenta alla vittima’, così privilegiando, ai fini della declaratoria di estinzione del reato in seguito a condotte riparatorie, il criterio fondato sull’idoneità del ‘ravvedimento operoso’ a realizzare un’adeguata composizione del conflitto ingenerato dal reato. Tale composizione assurge peraltro ad indice significativo della condivisione, da parte dell’autore, dell’ordine assiologico promosso dall’ordinamento, e violato dall’illecito, in una prospettiva di funzionalizzazione special-preventiva dell’istituto in parola.
Tra le modalità di definizione alternativa del procedimento - che consentono al giudice di pace di astenersi dall’irrogare la sanzione penale, pur in presenza di elementi tali da impedire il proscioglimento - deve annoverarsi anche l’istituto dell’esclusione della procedibilità per <<particolare tenuità del fatto>>, di cui all’art. 34, che consente un’adeguata valorizzazione delle esigenze della persona offesa, al pari dell’istituto della riparazione estintiva, dal momento che tanto la declaratoria di estinzione del reato ex art. 35, quanto la pronuncia di cui all’art. 34, presuppongono un ponderato bilanciamento dei conflicting values, tra i quali assume espresso rilievo l’interesse della vittima.
In particolare, la disciplina dettata dall’art. 34, solo in parte riprende il regime già introdotto, dall’art. 27 d.P.R. 448/1988, con riferimento al processo penale minorile, differenziandosene invece, quanto a fondamento teleologico nonché costituzionale, poichè qui non si tratta dell’educazione di un minorenne, che, prima di essere rieducato, ex art. 27, terzo comma, Cost., necessiti <<di veder completato il processo di corretta maturazione al quale ha diritto (ex art. 30, comma secondo, Cost.)>>, rilevando invece la composizione di un conflitto <<tra adulti e/o con gli interessi della collettività nel suo complesso, con il minor costo possibile per i diritti fondamentali di libertà e, più in generale, della personalità del singolo, ferma restando l’esigenza di adeguata tutela dei beni giuridici protetti dalle fattispecie penali in questione>> . Ed invero, le <<esigenze educative>> sono contemplate - in qualità di diritti e fini insuscettibili di ricevere pregiudizio dall’ulteriore corso del procedimento - unicamente dalle disposizioni sul processo minorile, e non nel contesto del giudizio innanzi al giudice di pace, che deve invece perseguire un bilanciamento tra le esigenze, più variegate (lavoro, studio, famiglia, salute), dell’adulto sottoposto al giudizio penale, il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice violata e gli interessi della vittima, dovendosi considerare non solo <<l’esiguità del danno o del pericolo>> cagionati, ma altresì le finalità specialpreventive (ed in parte criteri di proporzionalità retributiva), mediante la valutazione dell’<<occasionalità>> del fatto e del <<grado di colpevolezza>> dell’autore.
Se il paradigma mediativo rende le parti autonomi protagonisti della composizione del conflitto, è qui invece demandata al giudice, almeno nella fase pre-processuale, la valutazione in ordine all’adeguatezza del bilanciamento tra gli interessi in gioco e le istanze di tutela, tra cui il secondo comma dell’art. 34 d.lgs.274/00 menziona espressamente l’adeguata soddisfazione delle esigenze della persona offesa, alla quale viene addirittura riconosciuta la facoltà di opporsi a tale modalità di definizione alternativa del procedimento, anche in relazioni a reati procedibili d’ufficio (art. 34, comma terzo), a dimostrazione di come la tacitazione del bisogno di tutela della vittima sia assunto quale <<presupposto necessario per il superamento del conflitto fra le parti, ancora una volta privilegiato rispetto all’inflizione di pena>> . In merito alla recezione del paradigma mediativo da parte della normativa sulla competenza penale del  giudice di pace, devesi tuttavia osservare come non venga considerata la predisposizione di strutture cui demandare la pratica della mediazione, che, secondo le indicazioni di matrice internazionale, dovrebbe svolgersi in sede extraprocessuale, con l’ausilio di uno specialista terzo non solo rispetto alle parti, ma anche alla (cultura della) giurisdizione e non competente ad esercitare la potestà giudiziaria. Di contro, il quarto comma dell’art. 29 d.lgs. cit., nel prevedere che <<le dichiarazioni rese dalle parti nel corso dell’attività di conciliazione non possono essere in alcun modo utilizzate ai fini della deliberazione>>, tende <<(ovviamente!) a filtrare il passaggio del materiale acquisito durante la mediazione (e l’attività di conciliazione) verso il processo penale>>, pertanto tacitamente presupponendo (anzichè escluderla) la sovrapposizione tra la figura del giudice e quella del mediatore .

3. Mediare per rieducare

In maniera notevolmente diversa sono stati invece recepiti i principi della mediazione e della giustizia riparativa, nell’ambito dell’impianto normativo delineato dal d.P.R. 448/88, in tema di processo penale minorile, chiaramente impostato su di una prospettiva orientata all’autore, tale da anteporre il fine della crescita psicologica e del reinserimento sociale del reo a quello riparativo. Tuttavia, benchè carente di un’espressa previsione inerente il ricorso alla mediazione, il sistema della giustizia minorile ne consente (e di fatto ne ha consentito) l’ingresso, contestualmente dando rilievo alle esigenze della vittima. In tale ambito - non potendo la persona offesa costituirsi parte civile, né avvalersi del giudicato penale nell’eventuale azione civile per le restituzioni ed il risarcimento del danno derivante dal reato, giusta la statuizione di cui all’art. 10 d.P.R. cit. - la mediazione tra la stessa ed il reo, nella forma di riparazione del danno in favore della prima, o di svolgimento di prestazioni di pubblica utilità, può invece rilevare quale contenuto delle prescrizioni, imposte al minore in sede cautelare, ex art. 20, in ragione della spiccata funzionalità rieducativa cui assolve la procedura mediativa. Un’ipotesi di mediazione con la persona offesa è invece prevista dall’art. 28, che, nel disciplinare la sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato minorenne, autorizza il giudice ad impartirgli prescrizioni volte a riparare le conseguenze del reato, promuovendone la conciliazione con la vittima.  La prevista possibilità di elaborare, già in fase processuale, un progetto (ri)educativo responsabilizzante, che concretizzi l’unica reazione al comportamento deviante, sovverte - in una logica che coniuga istanze di intervento sociale e paradigmi di giustizia riparativa - il dogma secondo cui solo l’entità e la natura della sanzione rappresenterebbero adeguatamente, al reo, il disvalore dell’illecito . 
Quanto alla sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza (penale) del fatto, devesi rilevare come la disciplina di cui all’art. 27  rappresenti un importante strumento di attuazione del principio di offensività, certamente preferibile al paradigma di cui all’art. 49, cpv., c.p., dal momento che impone al giudice il rispetto di una serie articolata di parametri valutativi, così limitandone la discrezionalità, senza pertanto violare il principio di determinatezza né tantomeno quello dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, di cui all’art.112 Cost.. In tale ipotesi, un’eventuale procedura mediativa contribuirebbe a responsabilizzare il minore rispetto al fatto commesso, che, benché occasionale e di scarno rilievo penale, può tuttavia essere indice significativo di un pericoloso disagio: <<mantenendo integra l’assenza di risposta formale al reato tipica della misura, si colma il vuoto di significato giuridico, etico, sociale, che spesso, per il minorenne, accompagna il provvedimento ex art. 27>> . Del resto, la prassi ha univocamente dimostrato l’idoneità della mediazione – finanche per autori di reati connotati da forte implicazione emotiva, ovvero da una componente violenta – a porsi quale via responsabilizzante e minimamente afflittiva, di rapida fuoriuscita dal circuito criminale.
Sul terreno della giustizia penale minorile infatti, l’esigenza di reinserimento sociale del ragazzo e della sua rieducazione al rispetto della legalità, in maniera tale da evitare tuttavia ogni negativa interferenza con l’evoluzione della sua personalità, impone un’adeguata opzione selettiva rispetto alla logica del diritto penale, nel senso di un’opportuna differenziazione delle risposte ordinamentali alla devianza minorile, rispetto al paradigma tradizionale del sistema penale ordinario, valorizzando così in tale contesto la mediazione quale modalità alternativa di risoluzione dei conflitti.
E’ opportuno rilevare che la resistenza da parte del sistema giudiziario italiano a sviluppare in maniera ancora più profonda e incisiva le potenzialità ancora inespresse degli istituti conciliativi e mediativi nel settore del penale minorile è in gran parte riconducibile alla vigenza nel nostro ordinamento del principio della obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost .
Tale principio è stato infatti più volte richiamato a sostegno della ritenuta illegittimità di forme di riduzione del formalismo nella composizione del conflitto che possano addirittura tradursi in una rinuncia all’esercizio dell’azione penale,  che sarebbero invece essenziali ai fini di un superamento del paradigma di natura autoritario-prescrittivo ed impositivo in favore di una logica conciliativa-ricostruttiva, tesa non solo alla mera restaurazione dell’ordine giuridico e delle aspettative normative violati, ma anche e soprattutto alla ricostituzione delle relazioni sociali e alla previsione di soluzioni alternative dei conflitti secondo modalità concordate dalle stesse parti, attribuendosi così il dovuto valore anche alla vittima, che rischia altrimenti di rimanere nell’ombra in un contesto – quale quello del processo minorile – incentrato prevalentemente sulla figura, la personalità, le esigenze dell’autore in ragione della delicatezza e fragilità della sua persona  .
Ed è importante considerare che in relazione ai minori le tecniche mediative manifestano tutta la loro efficacia soprattutto se attuate in forma di diversion, ovvero come alternativa al processo (oltre che alla sanzione), dal momento che l’apertura o la riapertura di un procedimento volto ad accertare e sanzionare la responsabilità penale del minore, in posizione ancora una volta antagonista e conflittuale rispetto alla vittima, potrebbero risultare disfunzionali, se non addirittura neutralizzare del tutto i risultati faticosamente raggiunti attraverso il percorso mediativo. 
Tuttavia, per valorizzare come opportuno la mediazione quale alternativa al processo, in un regime quale il nostro caratterizzato dalla obbligatorietà dell’azione penale, è necessario individuare requisiti normativi che, attribuendo valore all’esito positivo eventualmente raggiunto dalla mediazione, possano legittimare il riconoscimento, in capo al pubblico ministero, di poteri discrezionali in ordine al promuovimento dell’azione penale. Rileva in tal senso, in particolare, l’art. 50 c.p.p. (“il pubblico ministero esercita l’azione penale quando non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione”), che configura, quale limite negativo all’obbligo dell’esercizio dell’azione penale, la sussistenza di condizioni tali da imporre la richiesta di un provvedimento di archiviazione, qualificabile appunto come richiesta di esenzione da tale obbligo. Ne deriva che, in caso di esito positivo della mediazione, in fase d’indagine, è certamente possibile, in relazione a reati procedibili a querela di parte, che il querelante proceda, spontaneamente ovvero dietro sollecitazione, a rimettere la querela, così potendosi pronunciare un provvedimento di archiviazione per assenza della necessaria condizione di procedibilità.
L’esperienza giurisprudenziale attuata dal Tribunale per i minori di Torino ha invece utilizzato la declaratoria d’irrilevanza del fatto di cui all’art. 27 proprio al fine di evitare al minore il trauma del processo nel suo corso completo, nei casi di minore gravità.
Si è del resto richiamata la possibilità di accedere a un’interpretazione meno restrittiva del principio di obbligatorietà dell’azione penale, tesa a limitarne l’applicazione non già ai soli casi di oggettiva superfluità del processo per carente fondatezza della notitia criminis, (Corte cost., sent. 88/1991), ma  ad ipotesi ulteriori. Nel sistema del processo minorile infatti, le esigenze di responsabilizzazione e reinserimento sociale del ragazzo prevalgono sulla pretesa punitiva statuale sino al punto di determinarne la rinuncia consentendo la fine anticipata del procedimento ove suscettibile di pregiudicare le esigenze educative del minore, ovvero inidoneo ad apportare concretamente un contributo positivo (art. 27). In tali casi, l’esito positivo della mediazione e la responsabilizzazione del minore così attivata potrebbero rappresentare i requisiti idonei ad affievolire la pretesa punitiva statuale, il cui obiettivo (ovvero la rieducazione del reo) dovrebbe ritenersi in queste ipotesi già raggiunto, prospettandosi così un concetto di superfluità dell’esercizio dell’azione penale che va oltre la mera inidoneità degli elementi raccolti a sostenere l’accusa in giudizio, come invece accade nel procedimento penale ordinario. La mediazione acquisterebbe così uno spazio di operatività pre-processuale, tale da potere consentire di formalizzare la conclusione del procedimento mediante un provvedimento di archiviazione, ampliando il novero dei presupposti di cui possa disporre la pubblica accusa per selezionare ragionevolmente e sulla base di requisiti oggettivi i casi di meritevolezza del ricorso al processo penale (Patanè). Del resto, in tali casi la decisione di non esercitare l’azione penale sarebbe comunque formalizzata all’esito di un esame, condotto dal giudice sulla richiesta di archiviazione, della cui fondatezza il primo potrà valutare adeguatamente i presupposti.
In prospettiva di riforma, si potrebbe poi configurare il requisito dell’effettiva utilità del processo – valutata tenendo conto, come detto poco sopra, dei ‘collateral harms’ derivanti dall’esercizio dell’azione penale – quale condizione di procedibilità, la cui mancanza legittimerebbe la richiesta di archiviazione ex art. 411 c.p.p. Ovvero, al medesimo fine si potrebbero configurare condotte quali ad es. la riconciliazione con la vittima, restituzioni, riparazione del danno, e ogni altra attività riconducibile ad efficaci programmi mediativi, come cause di estinzione del reato, che in quanto tale legittimerebbe l’archiviazione. L’inserimento dell’attività mediativa nella fase delle indagini preliminari- che da un lato consente di evitare la sottoposizione del ragazzo alla dinamica processuale in senso stretto e dall’altro prevede l’applicazione delle norme e dei principi del processo penale – assicura le garanzie fondamentali riconosciute all’imputato, come peraltro ribadito dall’art. 40, co.3 lett.b) della Convenzione di New York sui diritti del bambino, secondo cui il ricorso a procedure non giudiziarie non deve pregiudicare in alcun modo “i diritti dell’uomo e le garanzie legali”, non eludibili quindi da modalità alternative di risoluzione delle controversie. Si pensi, soprattutto, alla presunzione d’innocenza e al diritto al silenzio dell’indagato. Ne deriva che durante l’interrogatorio che dovrebbe precedere il tentativo di mediazione l’a.g. deve contestare in modo chiaro e preciso il fatto addebitato, dichiarando gli elementi di prova a carico e ribadendo all’indagato la sua facoltà di non rispondere. “ferma restando l’impraticabilità di qualsiasi tentativo di mediazione ove il presunto autore dovesse negare ogni addebito appare comunque evidente la necessaria antecedenza” logica e cronologica dell’accertamento di responsabilità, rispetto all’esperibilità della mediazione (Patanè; rilevante in tal senso il § 14 della raccomandazione n. 99 del Consiglio d’Europa, ove si afferma che “the basic facts of a case should normally be acknowleged by both parties. Participation in mediation should not be used as evidence of admission of guilt in subsequent legal proceedings”: se quindi non si richiede un esplicito riconoscimento di responsabilità, per procedere al tentativo di mediazione, è comunque necessaria l’ammissione dei fatti posti a base dell’imputazione o quantomeno la loro mancata contestazione, al fine di consentire la ricostruzione storica condivisa del fatto).
In caso di esito negativo della mediazione, con conseguente necessità di ritorno alla sede processuale, si pone poi l’ulteriore problema delle dichiarazioni e dei fatti emersi durante l’attività di mediazione (contesto in cui potrebbero affievolirsi le garanzie dell’indagato e potrebbe addirittura mancare il difensore). Dovrebbe quindi sancirsi l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in tale sede, privandole di efficacia probatoria, e correlativamente l’assenza di pubblicità nella fase mediativa con il solo obbligo, per il mediatore, di riferire all’autorità procedente circa l’esito finale della mediazione. . 

Restorative justice

I temi della restorative justice e della composizione del conflitto ingenerato dal reato, per una giustizia ‘ricostruttiva’ e coesistenziale,  sono stati oggetto di particolare attenzione nell’ambito delle legislazioni internazionale e comunitaria , le quali, a partire dai primi anni Ottanta, hanno richiamato l’attenzione dei governi europei  (e non solo) sull’esigenza di ristrutturare il sistema penale in un’ottica orientata (anche) alla vittima .
In particolare, il tema della tutela della vittima del reato è stato affrontato, in sede internazionale, con riferimento da un lato all’istituto del risarcimento del danno da parte dello Stato, e, dall’altro, ai possibili sviluppi del paradigma mediativo in ambito penale. In relazione al primo aspetto, il dovere dello Stato di assunzione dell’obbligo risarcitorio è stato fatto derivare dal principio di solidarietà sociale - a tenore del quale la collettività dovrebbe farsi carico della riparazione dei danni subiti dai cittadini - e non, come invece suggerito dal Parlamento europeo nella Risoluzione sul risarcimento delle vittime del reato del 1989, sulla base dell’asserita corresponsabilità dello Stato per non avere efficacemente adempiuto al suo dovere di mantenimento dell’ordine pubblico e del rispetto della legge .  Non può tuttavia sottacersi l’assunzione, da parte delle istituzioni statali, dell’obbligo risarcitorio, assolva, più realisticamente, a finalità (se non di risoluzione, tout court, quantomeno) di attenuazione del conflitto sociale . Disposizioni di particolare pregnanza, in tal senso, sono contenute nella Convenzione europea sul risarcimento alle vittime dei reati violenti (1983), che, sulla scia dell’orientamento adottato nella Risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul risarcimento delle vittime dei reati (1977), obbliga gli Stati firmatari a risarcire i danni ed ad indennizzare le spese sostenute dalle vittime (e, se decedute a seguito dell’illecito, dalle persone a loro carico) di reati intenzionali violenti, anche qualora l’autore non sia perseguibile o punibile. In sede europea è stato altresì presentato, da parte della Commissione delle Comunità Europee, un Libro Verde che ha inteso avviare una consultazione con gli Stati membri, in merito alle possibili misure da adottarsi a livello comunitario, al fine di consentire l’assunzione, da parte dello Stato, dell’onere risarcitorio in favore delle vittime di crimini commessi all’interno dell’Unione, auspicando l’istituzione di un Fondo europeo di solidarietà per l’attribuzione del risarcimento. (Solo in parziale) conformità con le posizioni internazionali e comunitarie, il nostro legislatore sta predisponendo un progetto di legge recante Disposizioni in favore delle vittime di reati comuni di particolare allarme sociale , che prevede forme di assistenza morale, materiale ed economica – anche mediante un contributo equitativo da parte dello Stato al ristoro del danno finanziario subito - in favore delle vittime (e, se decedute in conseguenza dell’illecito, dei loro congiunti o dei conviventi more uxorio a carico) dei delitti di omicidio (anche preterintenzionale), percosse, lesioni personali, nonché di qualsiasi delitto doloso dal quale derivi la morte o le lesioni di una persona (art. 586 c.p.), disponendone un ampliamento delle facoltà e dei diritti all’interno del processo penale. Si introducono tuttavia, in assoluta difformità dalle indicazioni comunitarie ed internazionali, taluni requisiti oggettivi per il diritto al sussidio statale, tali da restringere notevolmente il campo di applicazione delle norme de quibus: il beneficiario deve essersi infatti costituito parte civile nel procedimento penale, e nei suoi confronti deve essere stata emessa sentenza definitiva di risarcimento dei danni patrimoniali (e non), ovvero a seguito di denuncia contro ignoti l’autorità giudiziaria deve aver concluso le indagini con ordinanza di archiviazione per mancanza di elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio.
Oltre all’esigenza di predisposizione di politiche socio-assistenziali in favore delle vittime di reati,  - tali da intervenire nella fase del post-crimen, durante la quale, com’è noto, maggiori sono i rischi di vittimizzazione secondaria – le convenzioni internazionali sottolineano la necessità di potenziare i poteri processuali della persona offesa, suggerendo un intervento articolato su vari piani .
Ed invero, la citata Decisione-quadro del 15 marzo 2001 afferma l’esigenza di un radicale mutamento di paradigma nella dinamica del processo penale, al fine di garantire alla vittima, in fase pre-processuale, l’accesso alla giustizia ed il diritto all’informazione in merito alle modalità di tutela dei propri diritti; in fase endo-procedimentale, la garanzia delle esigenze di espressione, concretatesi nel diritto ad essere sentita ed a fornire elementi di prova; il diritto al rifiuto (una sorta di diritto ‘all’oblio’), ove manifestato, a ricevere informazioni in ordine all’andamento processuale; il dovere dello Stato di proteggere adeguatamente la vittima e le persone ad essa legate, in presenza di rischi di ritorsione nei loro confronti. L’art. 10 della medesima Decisione-quadro impegna peraltro gli Stati membri a promuovere, da un lato la mediazione nell’ambito dei procedimenti penali per determinati reati, e, dall’altro, a garantire un’adeguata considerazione, in ambito processuale, dei risultati di accordi, eventualmente raggiunti, tra autore e vittima; così riprendendo l’impostazione già seguita dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa, del 1999, sulla mediazione in materia penale. In tale sede, la mediazione penale viene definita quale processo informale che consenta una partecipazione attiva e liberamente scelta, alla composizione del conflitto ingenerato dal reato, con l’ausilio di un mediatore, terzo ed indipendente. Pur suscettibile di articolarsi in soluzioni diverse (dall’accordo sulla riparazione, all’impegno, liberamente assunto dal reo, a svolgere prestazioni lavorative socialmente utili, sino a semplici scuse), la dinamica della mediazione s’incentra sull’incontro tra vittima ed autore del reato, finalizzato alla composizione privata del conflitto, i cui risultati siano successivamente acquisiti e valutati dall’organo giurisdizionale. Benché la procedura mediativa presupponga necessariamente il riconoscimento dei fatti da cui origina la vittimizzazione, e pertanto il fatto di reato in sé, ciò tuttavia non implica, riguardo al reo, <<alcun riconoscimento di responsabilità rispetto ad ulteriori, eventuali, procedimenti penali>> . L’esito positivo della procedura mediativa, ed in particolare il raggiungimento di un accordo ragionevole e conforme a canoni di proporzionalità, ha efficacia preclusiva rispetto ad un’incriminazione per il medesimo fatto, in virtù di una estensione, al procedimento di mediazione, del principio del ne bis in idem. Dal lato della vittima, l’esaltazione dei profili relazionali del delitto contribuisce indubbiamente a soddisfare esigenze fondamentali connesse al fenomeno di vittimizzazione primaria, quali il diritto all’espressione ed al riconoscimento sociale del pregiudizio sofferto; assolvendo invece, nella prospettiva del reo, a rilevanti funzioni di risocializzazione e promozione della coscienza del disvalore – sociale ed umano, prima ancora che giuridico - della propria condotta.  Tali caratteristiche promuoverebbero infine, nella percezione collettiva, l’idea della possibilità di gestire il conflitto sociale ed il fenomeno deviante secondo statuti e percorsi alternativi a quello, ben noto, dell’accertamento delle responsabilità e dell’attivazione dell’istanza punitiva, in favore invece della costruzione di un modello dialogico che unisca, anziché segregare, nella ricerca, forse utopica, ma nondimeno doverosa, di quel <<qualcosa di meglio del diritto penale>> già auspicato da Gustav Radbruch  . 
La notevole attenzione di cui è attualmente oggetto - in sede di legislazione internazionale, come anche nel dibattito scientifico - il paradigma mediativo, deriva certamente dalla capacità, propria di tale modello ‘dialogico’ di giustizia penale, di coniugare la tutela degli interessi della vittima del reato, con le finalità risocializzatrici della pena, nella prospettiva di un superamento del tradizionale modello di diritto penale di stampo retribuzionista e ritorsivo. Infatti, se il percorso mediativo è certamente finalizzato ad una rieducazione non stigmatizzante dell’autore, esso appare altrettanto funzionale a garantire un’adeguata tutela delle esigenze della vittima del reato, dal momento che esito tipico della mediazione è proprio la realizzazione, da parte del reo, di prestazioni riparativo-risarcitorie in favore della vittima, con un conseguente rafforzamento, in termini di generalprevenzione positiva , della fiducia collettiva nella ‘tenuta’ dell’ordinamento. Alla luce di tali rilievi si comprende allora la ragione per cui, da più parti, di recente, si individui il rimedio alle disfunzioni del sistema penale nella promozione di strumenti di mediazione e composizione della conflittualità diversi dalla tradizionale giustizia retributiva, tali da gestire <<il trauma della vittima del reato secondo uno spirito di (…) conciliazione che è alla base del cosiddetto ‘patto sociale’>> . La vera ‘sfida’ del diritto penale moderno si gioca pertanto sul terreno di una diversa (da quella suggerita dal tradizionale paradigma retributivo) attribuzione di senso alla pena, fondata sull’idea che <<al malum actionis, costituito dal delitto, devesi opporre come esigenza della giustizia non tanto un malum passionis, secondo l’antica formula, quanto un bonum actionis, ossia un’attività in senso contrario dell’autore del delitto medesimo, il quale ne annulli o ne riduca gli effetti, fino a che ciò sia possibile>> . Il riconoscimento dell’indispensabilità del momento riparatorio all’interno del teleologismo della pena dovrebbe pertanto realizzarsi non soltanto con l’ampliamento delle ipotesi di ricorso alla mediazione, ma anche con l’introduzione di forme di probation giudiziali a contenuto risarcitorio-riparativo, nonché mediante la configurazione del risarcimento del danno – dalla realizzazione possibile anche in forma di symbolische Wiedergutmachung - quale sanzione autonoma per un cospicuo numero di reati, come abbiamo sin qui tentato di spiegare. Lo stesso sistema penale subirebbe un rilevante mutamento di paradigma, nella prospettiva della costruzione di una giustizia penale dialettica, nel cui ambito le istanze individualgarantistiche, polarizzate sulla posizione del reo, lascino spazio all’adeguata soddisfazione delle esigenze della vittima, nel segno del superamento del codice del castigo, mediante la logica del dialogo, dell’impegno e della corresponsabilità . 
Tali soluzioni contribuirebbero invero ad attribuire al sistema penale una nuova e diversa legittimazione, volta ad una più pregnante attuazione del finalismo rieducativo della pena – nel senso della riacquisizione, da parte del reo, dei valori socialmente con-divisi - e ad una effettiva (e non meramente simbolica) tutela della vittima; troppo spesso lasciata nell’ombra. 
Un diritto penale più vicino ai concreti bisogni delle persone offese rappresenta anche l’attuazione di un principio democratico fondamentale: <<la possibilità di assumere le stesse vittime a co-protagoniste del meccanismo punitivo, beninteso limitatamente alle infrazioni lesive dei loro circoscritti interessi concreti (...), contribuisce a valorizzarne la libertà di scelta e il senso di auto-responsabilità anche nel dominio della giustizia penale>> .




11. Pena e perdono








Il paradigma della mediazione e della giustizia conciliativa, restituiva o ricostruttiva (definendo con termini plurali la nozione plurisemantica di restorative justice),  evoca, sotto alcuni profili, il tema dell’etica ricostruttiva, discusso da Paul Ricoeur. Rilevante in tal senso è l’affermazione dell’Autore, secondo cui una componente costitutiva della giustizia come valore ideale è l’etica ricostruttiva, intesa quale dovere di sentire entrambe le parti in contraddittorio, audi alteram partem. L’importanza dell’ascolto della vittima e della valorizzazione del suo ruolo nel contesto processuale, ma più in generale all’interno della sintassi del rapporto fatto-autore-persona offesa è significativamente dimostrata dall’esperienza della Commissione per la verità e riconciliazione del Sudafrica. Esperienza significativa tanto più ove si consideri il contesto in cui si inserisce, relativo ai crimini di diritto internazionale, rispetto ai quali è ricorrente la tendenza a una deformalizzazione del diritto penale, secondo il paradigma (del tutto opposto a quello della giustizia conciliativa, ricostruttiva o riparativa) del ‘diritto penale del nemico’.  
La criminalizzazione del nemico trova infatti la sua più peculiare espressione nella giustizia penale internazionale, in relazione ai crimini “di diritto internazionale”, ovvero ai crimini di aggressione, di guerra, di genocidio, contro l’umanità.
Significative in proposito le osservazioni di Jakobs:

“Il Tribunale per la ex-Jugoslavia a L’Aja, lo Statuto di Roma ed il Codice penale internazionale  sottendono la convinzione secondo la quale in tutto il mondo sarebbe vigente un sistema normativo minimo, giuridicamente vincolante, alla cui stregua devono ritenersi inammissibili le violazioni dei diritti umani fondamentali, indipendentemente dal luogo in cui si realizzino; e secondo la quale, inoltre, si dovrebbe reagire a tali violazioni mediante un intervento e l’irrogazione di una pena.. Se si analizza più attentamente la giurisdizione internazionale ed interna così istituita, emerge che la pena, da strumentale al mantenimento della vigenza della norma, diviene funzionale alla creazione di tale vigenza. Le violazioni dei diritti umani fondamentali si determinano perché nei luoghi in cui si verificano tali diritti non godono ancora di una sufficiente stabilizzazione, della necessaria effettività. D’altro canto, anche in questi territori tali violazioni sarebbero intese come infrazioni dell’ordinamento costituito e sarebbero punite, senza la necessità di ricorre ad una giurisdizione esterna. Pertanto, alcuni Stati – prevalentemente occidentali – affermano la vigenza globale dei diritti umani; vigenza che è contraddetta dalla stessa realizzazione dei crimini contro l’umanità. Nell’ipotesi di un delitto commesso in uno Stato, si viola, in un caso singolo, un ordinamento istituzionalizzato. E’ già stabilito in favore dello Stato il monopolio della violenza e ad esso l’autore si sottomette, già prima della commissione del fatto. Con le parole di Kant , nello “stato giuridico-comunitario” l’”autorità” ha potere tanto nei confronti dell’autore, quanto nei confronti della vittima . Pertanto, si tratta di una condizione di certezza, in cui lo Stato presta sufficiente sicurezza alle aspettative normative della vittima nei confronti dell’autore, di modo che, se nonostante tale certezza si realizza un illecito, esso appare come una eccezione che non deve considerarsi ai fini della previsione cognitiva e che può essere neutralizzata mediante l’imputazione all’autore e la sua punizione. Se ciò vale in un contesto di reale vigenza dell’ordinamento giuridico, la situazione è diversa se si considera la vigenza su scala globale dei diritti umani. Non può in alcun modo affermarsi che esiste una condizione reale di vigenza del Diritto, ma soltanto un postulato di tale realizzazione. Tale postulato può essere perfettamente fondato, ma questo non ne implica per ciò solo la realizzazione, così come una pretesa giuridico-civile non si realizza per il mero fatto di essere validamente fondata. In altri termini: in questo contesto non si tratta del mantenimento di uno “stato giuridico-comunitario” ma, previamente, della sua istituzione. Lo stadio precedente alla creazione dello “stato giuridico-comunitario” è lo stato di natura, nel quale non esiste la personalità ed in ogni caso non esiste una personalità garantita. Pertanto, nei confronti degli autori di violazioni dei diritti umani –che da parte loro non offrono alcuna garanzia sufficiente della propria qualità di persona- è di per sé consentita l’adozione di ogni misura necessaria ad assicurare il contesto “giuridico-comunitario”, e questo è quanto di fatto si verifica, nel momento in cui si ricorre in prima istanza alla guerra, anziché procedere previamente assegnando alla polizia il compito di eseguire un ordine di detenzione. Orbene, una volta catturato l’autore, si ricorre al Codice penale ed al Codice di procedura penale, come se si trattasse di un omicidio per motivi di  rancore o di conflitti urbani circoscritti, dotati di tali caratteristiche. L’autore viene qualificato come persona al fine di mantenere la finzione della vigenza universale dei diritti umani. Sarebbe invece più onesto distinguere questa forma di coazione mediante la creazione di una regola di diritto tesa a mantenere la configurazione normativa: il “cittadino” Milosevic è tanto poco parte di quella società che lo sottopone al giudizio di un tribunale, quanto lo era il “cittadino” Capeto. Com’è evidente, la mia tesi non si scaglia contro i diritti umani universalmente vigenti, ma si preoccupa di sottolineare che la fondazione è qualcosa di diverso dalla garanzia degli stessi. Se può essere utile alla fondazione di una Costituzione mondiale “giuridico-comunitaria”, si dovrà punire coloro che violano i diritti umani, trattandosi tuttavia di una pena diretta non contro persone colpevoli, ma contro nemici pericolosi. E ciò dovrebbe allora chiamarsi con il suo nome: Diritto penale del nemico ”. 
Si tratterebbe cioè di una confusione tra pena legale –comminata e irrogata dallo Stato – e pena conforme ai canoni dello stato di natura (quale mezzo di coercizione contro chi non intenda conformarsi a un ordine stabilito eteronomamente da altri).
L’Autore precisa poi che, a fronte dell’insussistenza della vigenza a livello universale dei diritti umani, la sanzione nei confronti delle condotte di violazione massiva di tali diritti presenta natura pre-giuridica, non essendo il responsabile di tale comportamento “cittadino dell’ordinamento che lo giudica”: in tal senso Milosevic non è un cittadino dell’ordinamento cui appartiene la giurisdizione che lo ha giudicato, come tale non era Capeto  . Dal momento che la violazione estesa e sistematica dei diritti umani ne dimostra l’ineffettività, la sanzione di tali violazioni –osserva Jakobs - non mira al mantenimento di uno stato comunitario-legale, ma alla sua istituzione. Dovendosi quindi distinguere la coazione funzionale all’istituzione di un ordinamento, da quella finalizzata al mero mantenimento di un sistema giuridico-sociale, la pena funzionale alla creazione e non alla conservazione di un ordinamento – quale appunto è la sanzione prevista per i crimini di diritto internazionale – non è rivolta ai cittadini secondo Jakobs, ma ai nemici pericolosi di tale ordinamento in fieri, secondo le forme del diritto penale del nemico.
Il diritto internazionale penale confonderebbe cioè, secondo Jakobs, il diritto positivo con il potere, suscettibile di legittimazione politica. L’esistenza di un ordinamento penale e l’esercizio della giustizia penale in assenza di un previo monopolio della forza in capo ad un’istanza pubblica internazionale sarebbe secondo Jakobs un mero “nome, non un concetto”, una petitio principii, cioè, priva di validità giuridico-positiva, suscettibile al più di fornire copertura ideologica e politica all’esercizio illegittimo del potere.
Ora, la tesi di Jakobs presuppone un’interpretazione del diritto internazionale secondo la teoria dualistica del double law –secondo cui il diritto internazionale, pur dotato di cogenza nei confronti degli ordinamenti nazionali, sia ad essi esterno - , che ritengo inadatta oggi a descrivere la realtà giuridico-politico-istituzionale del diritto internazionale, alla luce dei suoi attuali sviluppi .
Tuttavia, anche adottando la prospettiva dualistica, non potrebbe condividersi la conclusione cui giunge Jakobs in ordine alla natura giuridica della sanzione irrogata dalla comunità internazionale nei confronti degli autori di violazioni massive dei diritti umani, quale cioè mera forma di coercizione rispetto ad un nemico pericoloso, modellata sul paradigma del diritto penale del nemico.
Pur adottando una concezione dualistica dei rapporti tra diritto internazionale e diritto interno, infatti, la reazione della comunità internazionale nei confronti degli autori di violazioni di massa dei diritti umani rappresenterebbe l’espressione di un diritto di guerra , da applicarsi quindi nei confronti di uno Stato che si sia reso responsabile di tali crimini, e non, invece, di un hostis pericoloso da sottoporre ad uno statuto penale differenziato . 
E’ del resto contraddittoria la posizione di chi, come Jakobs, pur stigmatizzando da un lato l’impunità dei crimini di diritto internazionale, dall’altro sostiene la concezione dualistica dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale; concezione adottata –si sa- dai più strenui oppositori della giustizia penale internazionale, rifacendosi in alcuni punti a noti argomenti schmittiani . L’opposizione di Carl Schmitt all’idea di una cittadinanza universale si fondava infatti sulle implicazioni che tale forma di cittadinanza avrebbe determinato, ed in particolare la rinuncia, che essa presuppone, all’esercizio del potere e della sovranità, quale capacità performativa di de-signazione del nemico. La rinuncia al potere di individuare e designare il nemico avrebbe quindi rappresentato, nella concezione schmittiana del politico, una manifestazione di debolezza del potere; una rinuncia al suo esercizio.
In realtà, il ragionamento di Jakobs sembra per altri versi affetto da una sorta di fallacia naturalistica, nella misura in cui subordina la legittimità della giustizia penale all’esistenza di un’istituzione sovra-statuale depositaria del monopolio della forza; di un Leviatano che accentri in sè lo jus puniendi.  Se l’esistenza di tale istituzione condiziona inevitabilmente l’effettività delle decisioni della giustizia penale internazionale, ciò non significa che ne possa per ciò solo inficiare la legittimità, che deriva invece dal diritto internazionale e dall’attribuzione, da parte della comunità internazionale, ai tribunali ad hoc ed oggi, alla CPI, della competenza a giudicare i crimini di diritto internazionale.
Inoltre, come sottolinea giustamente Raùl Zaffaroni, se la selettività e la scarsa effettività fossero argomenti idonei a delegittimare il diritto, ne sarebbe inficiata la legittimità non soltanto del diritto internazionale penale, ma anche quella del diritto penale nazionale, le cui ineffettività e selettività sono note .
Ed è forse superfluo rilevare il salto logico e l’incongruenza di un argomento che, da una constatazione di carattere ontico (la scarsa effettività del diritto internazionale penale), fa derivare una conseguenza di natura assiologico-deontica (la legittimità del diritto internazionale penale).
Del resto, la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, le numerose convenzioni internazionali delle Nazioni Unite (sui diritti civili e politici, sui diritti economici, sociali e culturali; nonchè, più di recente, sui diritti dei lavoratori migranti e sulla libertà dalla schiavitù e dalla tratta) non sono che l’espressione, reale, indiscutibile e concreta, di un ordinamento internazionale la ci legittimità non potrà mai essere inficiata da alcun tipo di  violazione; sia essa commessa su scala mondiale e da parte dei detentori del potere. E proprio la paternità dei crimini di diritto internazionale –commessi dai detentori del potere sovrano, in esecuzione di politiche sanguinarie, di morte - , l’intima coappartenenza tra violenza e potere, evidenziano la necessità di una forma peculiare di giustizia internazionale, che sanzionando tali terribili violazioni dei diritti umani, applichi quel diritto internazionale che altrimenti dovrebbero applicare, contro se stessi, i medesimi autori di quei crimini, in ragione della loro posizione.
In altri termini, in assenza di una istituzione che assicuri la cogenza di sanzioni adeguate, nonché della riparazione, a fronte di tali violazioni efferate dei diritti umani, facendosi carico dell’irrogazione della pena, non potendo rimettere questa funzione alla sovranità nazionale – i cui esponenti sono i responsabili di tali crimini - il diritto internazionale a tutela dei diritti umani sarebbe una mera petitio principii, una dichiarazione d’intenti, a fronte di un effettivo e sistematico bellum omnium contra omnes.
Prima dell’istituzione della Corte penale internazionale, la funzione di supplenza nei confronti del potere sanzionatorio interno - ovviamente inerte perché di tali crimini autore -  rispetto alle violazioni dei diritti umani, era affidata al principio di universalità , in quanto espressione dell’esigenza, comunemente avvertita, di impedire l’impunità e soprattutto l’oblio di politiche sanguinarie chiaramente contrarie al diritto internazionale e al contenuto fondamentale dei diritti umani, sancendone altresì, seppure originariamente solo in forma di norma consuetudinaria, l’imprescrittibilità . Che, ci ricorda Derida, “si rivolge all’ordine trascendente dell’incondizionale, del perdono e dell’imperdonabile, verso una sorta di antistoricità, ovvero di eternità e di giudizio finale che va oltre la storia e il tempo finito dl diritto: mai più, “in eterno”, ovunque e sempre, il crimine contro l’umanità sarà passibile di essere processato e l’archivio giudiziario non verrà mai cancellato” .
L’aleatorietà tipica della scelta di rimettere la sanzione nei confronti dei crimini contro l’umanità all’operatività del principio di universalità ha quindi indotto una parte significativa della comunità internazionale ad investire di questa potestà giurisdizionale i tribunali internazionali ed oggi la Corte penale internazionale, rendendo altresì (con un processo di Verrechtlichung) diritto positivo le norme e i principi dello jus gentium.
Che tale processo rappresenti il progressivo sviluppo di una cittadinanza universale (e non meramente globale) è indubbio. E il fatto che la pena possa in questo contesto assolvere anche ad una funzione performativa e di stabilizzazione delle aspettative sociali connesse a tale ordinamento normativo di carattere internazionale, è certamente un riflesso del consolidarsi  dell’idea della cittadinanza universale.
Da cui non può tuttavia  – a meno di cadere nel salto logico di un’assiomatica petitio principii, quale sembra essere quella di Jakobs – dedursi la conseguenza, secondo cui la repressione dei crimini di diritto internazionale, in quanto funzionale in questa prospettiva alla creazione e non alla conservazione di un ordinamento, non sia rivolta a cittadini, ma a nemici pericolosi di tale ordinamento, secondo le forme del diritto penale del nemico.
Non si tratta infatti di istituzione, ma di progressiva stabilizzazione di un ordinamento e di una forma di cittadinanza universali, rispetto ai quali la pena assolve soprattutto alla tradizionale funzione di tutela di beni giuridici (a titolarità anche, ma non solo, meta-individuale), e non (o almeno non solo) a quella di conferma della vigenza delle norme di tale ordinamento.
Sarebbe del resto un’espressione di etnocentrismo e di visione etnocentrica dei processi politici applicare more geometrico all’ordinamento internazionale lo schema logico e cronologico di sviluppo e formazione proprio dei sistemi politico-istituzionali nazionali, ed in particolare degli Stati occidentali, pretendendo cioè che l’attribuzione del potere giurisdizionale con competenza a giudicare dei crimini di diritto internazionale, segua necessariamente, nelle forme e nei modi che hanno caratterizzato lo sviluppo degli Stati nazionali in occidente, la formazione di uno Stato mondiale. Non foss’altro perché il rapporto di priorità logica non implica necessariamente, e per ciò solo, una priorità strettamente cronologica .
Analoga a quella di Jakobs – seppure contraria in linea di principio all’idea del Feindstrafrecht in senso più generale - la posizione di Daniel R. Pastor , secondo cui l’idea di un potere penale internazionale costituisce una contraddizione in termini, non potendosi secondo l’Autore postulare l’esistenza e l’efficacia di un monopolio del potere punitivo su scala internazionale in assenza di un ordinamento giuridico dotato di una propria autonoma forma di sovranità originaria; ovvero di una democrazia mondiale, di una costituzione universale e di una sufficiente omogeneità sociale a livello globale, che garantisca a ciascuno eguaglianza di diritti e libertà.
Pertanto, secondo l’Autore, il sistema penale internazionale –comprensivo delle branche del diritto penale sostanziale e  processuale, del diritto dell’ordinamento giudiziario della Corte penale internazionale, nonchè del diritto penale internazionale, inteso quale sistema normativo di adeguamento degli ordinamenti interni allo statuto di Roma - costituisce non solo un banco di prova per l’analisi del diritto penale del nemico, ma ne rappresenta addirittura il prototipo.
Anzi, l’Autore definisce ironicamente “curiosa” una comunità, quale quella internazionale, che ha la pretesa di subordinare – mediante garanzie e principi solennemente proclamati come cogenti e inviolabili da convenzioni ed in generale dal diritto pattizio -  la legittimità degli ordinamenti locali a norme inderogabili di ispirazione liberal-democratica, sottraendosi di contro ad ogni tipo di sindacato di legittimità ed autogiustificando le proprie modalità di applicazione del diritto, il proprio esercizio del potere giurisdizionale (di jus-dicere in senso stretto) e della potestà sanzionatoria, anche quando palesemente contastanti con principi e garanzie altrove dichiarati inviolabili e cogenti .
La giustizia penale rappresenterebbe pertanto, in quest’ottica, un sistema illegittimo almeno quanto i sistemi politici i cui crimini ha la pretesa di giudicare, secondo uno slogan frutto di un certo “feticismo penale”  e di un cognitivismo etico che in nome di una “ragion di Stato internazionale” intende legittimare le più evidenti e inammissibili violazioni delle garanzie  dei principi del diritto penale liberal-democratico: dall’irretroattività della legge incriminatrice, al principio di colpevolezza per il fatto, alla personalità della responsabilità penale, alla necessaria precisione e determinatezza della norma incriminatrice.
Secondo questa posizione interpretativa, del resto, le deroghe ai principi e alle garanzie del diritto penale liberal-democratico che caratterizzano la giustizia penale internazionale non sarebbero che il riflesso di un’ipocrita concezione etno-centrica dell’esercizio del potere nella comunità internazionale, la prosecuzione, con altri mezzi, di una politica prevaricatrice, tesa ad escludere i paesi più deboli dal monopolio della forza e del potere, ratificando un ordine mondiale che, in luogo di prevenire, promuove e stimola la perpetrazione degli stessi crimini che costituiscono l’oggetto della competenza della giustizia penale internazionale.
Il diritto internazionale penale servirebbe quindi da copertura ideologica e politica per la legittimazione del ‘reale esistente’, la giustificazione cioè di un ordine socio-economico-istituzionale mondiale in cui, proprio nell’”età dei diritti”, un sesto della popolazione mondiale possiede l’83% (cioè i 5/6) della ricchezza del pianeta .
Si tratterebbe allora, secondo Daniel Pastor – che sotto questo profilo ricorre ad argomentazioni proprie della criminologia critica e delle correnti abolizioniste -  di un’illusoria ipocrisia, che pretende di descrivere paradossalmente il potere penale – vecchio e noto strumento di violazione dei diritti umani – quale ragione e mezzo di protezione e garanzia dei diritti umani. Invocando una ragion di stato fondata sul principio “in delictis atrocissimis potest judex jura transgredi”, la giustizia penale internazionale non sarebbe che l’espressione di una regressione della coscienza giuridica all’età pre-moderna; una forma di esercizio del potere libero da vincoli e limiti di sorta, rievocando le forme e i modi dell’antica inquisizione, che in ragione della sua pretesa missione metafisica e trascendente, si autodefiniva estranea a parametri e ad ogni sindacato di natura normativa.
Una forma di esercizio del potere che, come quella di matrice internazionalistica, si fonda su di un’ideologia orientata al principio del nullum crimen sine poena e dell’infinitive punishment, autodefinendosi depositaria della verità e dell’assiologia universale, rischierebbe allora di rappresentare puramente e semplicemente un power without law ; un sistema di controllo sociale fondato, al pari della religione, su convinzioni e assiomi nè razionali nè dimostrabili, e tuttavia supremi e inconfutabili in quanto “sacri” .
In questa prospettiva, si osserva come il diritto internazionale penale (come applicato dalla CPI, ma ancor prima dal Tribunale di Norimberga, dal Tribunale per la ex Jugoslavia e dal Tribunale per il Rwanda) presenti tutte le caratteristiche proprie del diritto penale del nemico, anche a prescindere dalla considerazione  –forse assorbente – secondo cui in questi processi l’imputato è generalmente il nemico, sconfitto in guerra.
La potestà penale internazionale sembra infatti derogare alla maggior parte dei principi (dal nullum crimen sine lege, al Naturrichter, al criterio del locus commissi delicti come requisito idoneo ad individuare la giurisdizione competente, alla necessaria determinatezza e precisione della norma , sino alla stessa imprescrittibilità dei crimini in esame) del discorso giuridico-penale di ascendenza razionalista e illuminista, finalizzati come noto a contenere la violenza punitiva, disciplinando le modalità di esercizio e i requisiti di legittimità del monopolio statale del potere punitivo .
Del resto, in favore della deroga a tali principi si adduce generalmente l’efferatezza dei crimini di diritto internazionale, nella convinzione che “in delictis atrocissimis jura transgredi licet”.  Ove deroga al diritto positivo significherebbe adesione a codici propri del sostanzialismo e del cognitivismo etico, confusione, ancora una volta pre-illuministica, tra diritto e morale, come se giudici e imputati impersonassero le figure del bene e del male assoluti, in una contrapposizione manichea che non potrebbe conoscere mediazione nè relazione alcuna, se non quella dell’accusa esemplare. Logiche, queste, che sembrano riaffiorare nelle scene e negli atti dei giudizi dinanzi ai tribunali ad hoc. Ricorda in proposito Donini  una delle argomentazioni addotte dalla giuria del Tribunale per la ex-Jugoslavia – autolegittimantesi quale istituzione impegnata nella “lotta contro le forze del male”  - a sostegno della pena (a 46 anni di reclusione) irrogata al generale Krstic: la sua “adesione al male”, in una sorta di riduzione sostanzialistica del crime all’evil. 
Ne deriva, in questa prospettiva, l’istituzione di un sistema penale d’eccezione, fondato su logiche sostanzialiste e per certi versi su di un celato cognitivismo etico, legato alle esigenze di una “ragione internazionale di Stato”, quale principio politico (e non giuridico) di legittimazione del potere punitivo, in cui l’istanza prevalente sembra essere quella di contrastare l’altrimenti sistematica impunità di tali crimini.
E’ infatti noto che l’impunità ha costantemente caratterizzato questi crimini non soltanto perchè generalmente imputabili a politiche omicidiarie (come tali non solo legittimate, ma addirittura promosse e ordinate dal potere istituzionale), ma anche perchè spesso tali da determinare – nel quadro di attacchi estesi e sistematici a un’etnia, a una popolazione intera, etc.- la scomparsa di ogni possibile testimone ovvero di ogni possibile elemento probatorio (emblematica in tal senso la distruzione, in Kosovo, dei registri dello stato civile, così da potere cancellare per sempre l’identità delle persone morte, deportate, torturate).
Si osserva quindi , come l’esigenza di contrastare l’impunità di alcuni delitti sia stata talora invocata ideologicamente e pertanto strumentalizzata, in favore di politiche criminali iperefficientiste,  quale copertura ideologica capace di legittimare uno scivolamento del sistema penale verso i paradigmi del diritto penale del nemico.
E’ evidente del resto la fallacia metodologica in cui incorre l’argomentazione oggetto di critica. Non si vede infatti perché le carenze e l’inefficacia che caratterizzano il diritto criminale interno dovrebbero poi risolversi in ragioni di particolare effettività della giustizia penale internazionale.
Certamente, questa pretesa illusoria è fortemente condizionata da ‘bisogni emotivi di pena’ e da esigenze di contrasto, prevenzione ma soprattutto retribuzione del danno umano, sociale e politico connesso ai crimini di diritto internazionale.

La necessità di contrastare l’impunità ha quindi determinato una (almeno parziale) modulazione del diritto internazionale penale sul paradigma del diritto penale del nemico, secondo una prospettiva polemica, di contrapposizione manichea tra la comunità internazionale (o gli Stati vincitori della guerra, come nel caso del tribunale di Norimberga) asseritamente depositaria della giustizia e del bene, contro il male assoluto dei crimini di diritto internazionale.
Logica, questa, che evoca la sintassi della guerra e dello scontro senza possibilità di mediazione alcuna, e che non a caso ricorre-anche se con riferimento al terrorismo internazionale- nel discorso neo-con che da cinque anni ormai fornisce la legittimazione ideologica alla guerra preventiva (significativamente denominata “Infinitive Justice”) , descritta in termini di lotta “del bene contro il male” .
L’enfatizzazione della “virtù penale” rispetto a delitti di assoluta efferatezza quali i crimini contro l’umanità, ed un certo “fondamentalismo giuridico ”, divengono così i fattori propulsivi di una costruzione dell’immagine dell’imputato come non-cittadino, non-persona; nemico, nell’accezione jakobsiana . Una breve riflessione sul recente processo a Saddam Hussein, conclusosi come noto con la condanna all’impiccagione dell’ex raìs (il 30 dicembre 2006) può forse aiutarci a capire.


12. La pace e l’ordalia

“La giustizia è più forte dei suoi nemici”. C’è ancora bisogno di vendetta  nelle parole del premier iracheno Nouri al Maliki, che commentando la condanna a morte dell’ex rais Saddam Hussein, torna ancora una volta a ridurre la giustizia a gioco di forza e di potere, a lotta non “per il diritto”, ma per la supremazia, combattuta su opposte trincee, tra nemici irriducibili. E se anche, precisa il primo ministro, ''per me la sentenza non rappresenta niente, perché la sua esecuzione non vale tutto il sangue che ha versato” può almeno “portare un po' di conforto alle famiglie dei martiri''; di quei 148 sciiti sacrificati a Dujail nel 1982. Come se poi l’impiccagione del boia, e la vendetta che tutto giustifica, facendo del carnefice un’ennesima vittima, potessero restituire la vita a tutti coloro che sono stati uccisi. Come se la violenza di Stato potesse cancellare gli orrori di una politica omicida; come se dalla morte potesse rinascere la vita. E non si tratta di ingenue speranze, ma della genealogia di un luogo comune, di colpevoli illusioni del potere, la cui storia consiste da sempre nella programmazione della propria innocenza rispetto all’arbitrio. Sono queste le cieche contraddizioni che la logica ferrea e spietata dell’ ”occhio per occhio” della legge del taglione ripropone da millenni, di fronte a tutto il non-senso della violenza, ma soprattutto di quella dimensione paradossale della violenza che assume la forma neutra e impersonale dello Stato. Come quando si pensa di scambiare – come fece Eichmann - un milione di uomini (ebrei) con diecimila camion, o come quando– lo fece Himmler- si definisce un popolo “materia biologica di valore”. Troppe politiche di morte hanno avuto la pretesa di giustificare questi crimini, in nome ora della purezza della razza, ora della lotta al dissenso politico, ora della fedeltà al regime, alla sua religione, ad una sovranità mai giustiziabile perché “giusta in quanto tale”; perché, come recita un detto antico, “il re non sbaglia mai”. Neppure quando si arroga il diritto di decidere che il destino di altri uomini “sarà quello di non avere più destino alcuno” (Lejbowicz), facendo del sangue versato un simbolo di catarsi, e di quei corpi straziati un trionfo di guerra. E se i crimini contro l’umanità, come quelli di cui rispondeva Saddam Hussein, sospendono il tempo, rendendo il potere artefice del destino degli uomini, non c’è giustizia che possa restituire una storia non vissuta, ma soltanto sostituire alla forza anonima della fatalità la dialettica sofferta, ma misurata, del confronto e del perdono. Ma è difficile immaginare che tanto orrore possa ridursi alle formule vuote e fredde della legge, e che si possano attribuire colpe e responsabilità senza ricadere nel vuoto di senso dell’ordalia, dell’annientamento sacrificale del carnefice, escluso dall’umanità come le vittime dei suoi crimini. Il processo a Saddam ha dimostrato, ancora una volta, il legame profondo, e così difficile da recidere, tra giustizia e vendetta. Ogni attimo di quel giudizio sembrava replicare, specularmente, immagini e scene di un passato che assorbe il presente e il futuro di un popolo, e che chiede di essere celebrato nelle forme sacrali di un rito; per onorare una memoria che si declina soltanto all’imperativo. Nella disinvestitura del tiranno c’è il bisogno disperato dei sopravvissuti di vedere il boia “nudo fra genti vestite”, spogliato del crisma sacrale della sovranità; corpo fragile e sofferente come le vittime della sua colpa imperdonabile. Del corpo a corpo della guerra, questo processo replicava, nella sua ritualità a volte oltraggiosa, tutta la tragica fisicità; l’immane concretezza di uno scontro che non conosce mediazioni. Spogliato dell’uniforme come delle finzioni cui obbliga il potere, il tiranno è privato di umanità e dignità; di quel “diritto ad avere diritti” che fa del nudo corpo un uomo. Così la vittima, testimone essa stessa (molto più di ogni narrazione) del male e della sua banalità, resta inchiodata al limbo di una sofferenza che non può tradursi in parole né accuse; priva di un’identità diversa da quella che il crimine le ha imposto per sempre. Finchè la giustizia si limiterà, come nella condanna a morte a Saddam, ad invertire i ruoli di vittime e carnefici, non sarà che un “mimo della guerra”. Da cui potrà differenziarsi soltanto se rinuncerà ad annientare il nemico, reintegrandolo nella società con una pena che ne sancisca le colpe.
La giustizia è più forte dei suoi nemici soltanto se si fa umana. Soltanto se restituisce al carnefice, con la pena, la sua dignità, rendendolo capace di riconoscere se stesso nell’altro; e soltanto se libera la vittima dalla prigionia del suo eterno passato, riconoscendole l’identità e il vissuto di cui è stata privata. Solo se la giustizia si fa reciproco riconoscimento e dovere di memoria nella vita e per la vita, il processo può tornare ad essere il terreno per la costruzione di uno spazio comune per l’umanità; per la vittima come per il suo carnefice.


13. Arcana  imperii


Come dimostra il caso del processo a Saddam, che pur essendo stato instaurato da una corte nazionale, concerneva però l’imputazione del rais per crimini contro l’umanità, sono l’efferatezza e l’essenza stessa di questi crimini a caricare il processo di un bisogno di riconoscimento da parte delle vittime del “male subito”, che oscilla pericolosamente tra retribuzione, esigenza identitaria e vendetta, e a determinare una torsione dei principi e delle garanzie costitutivi del diritto penale, imponendo come prioritario l’obiettivo della “lotta all’impunità dei crimini del potere”.
Il diritto internazionale penale rischia così di fare della pena la sola ratio, in assenza di misure (politiche, sociali, economiche, amministrative) alternative di controllo sociale, nonchè di una giurisdizione a competenza universale volta a garantire i diritti sociali di ciascuno; coprendo con veste giuridica ciò che rischia di essere, ancora una volta, puro esercizio della forza.
I critici più categorici della giustizia penale internazionale propongono pertanto,  l’adozione di correttivi  al sistema di diritto internazionale penale, idonei ad assicurare una maggiore conformità rispetto ai principi e alle garanzie del diritto penale d’ispirazione liberal-democratica, prevedendo ad esempio la non utilizzabilità, quale fonte normativa, del diritto consuetudinario- in ragione della sua scarsa tassatività e precisione, dovuta alla mancata codificazione, alla violazione che determinerebbe al  principio di stretta legalità - ; il trasferimento della sede della Corte in un apese in via di sviluppo, così da consentire un reale partecipazione all’esercizio del potere penale internazionale anche delle popolazioni più deboli del pianeta; l’istituzione di un sistema integrato di misure di controllo sociale non-penale a livello internazionale, tale da garantire il carattere di extrema ratio del diritto penale  e della pena; l’adozione di politiche sociali coordinate a livello globale, nonchè di un sistema internazionale di regolamentazione dell’economia e del mercato globale, al fine di garantire una reale ed effettiva eguaglianza di tutti gli abitanti del pianeta .
Ora, salva la precisazione che farò in seguito, la proposta di Daniel Pastor coglie indubbiamente nel segno soprattutto in relazione all’esigenza di garantire al diritto internazionale penale maggiore determinatezza ed una base normativa organica (quale oggi tuttavia già si delinea, in ragione dell’approvazione dell’ International Criminal Court Statute e, quale ulteriore precisazione di alcune delle sue norme, degli Elements of Crimes).
Benchè tali proposte possano essere in linea di principio condivisibili, tuttavia non mi sembrano esattamente idonee a garantire l’eliminazione delle cause dei crimini di diritto internazionale, che diversamente da alcuni reati comuni, non sono se non in minima parte riconducibili allo squilibrio socio-economico che pur caratterizza la realtà globale.
I crimini di diritto internazionale affondano infatti le proprie radici nella intima coappartenenza tra violenza e potere. Non a caso, la maggior parte dei crimini di diritto internazionale esprimono l’esito tragico di politiche ‘di morte’, sanguinarie, praticate necessariamente e storicamente da regimi illiberali.
Del resto, a dimostrazione del fatto che autori di tali crimini non sono certo i deboli del pianeta, potrebbero richiamarsi i casi di tortura, trattamenti inumani o degradanti verificatisi ad Abu Ghraib e Guantànamo, o gli innumerevoli crimini di guerra realizzati da parte degli organi militari degli USA, che certo non rappresentano la parte marginale e debole della popolazione mondiale.
I crimini di diritto internazionale non sono che l’espressione estrema e paradossale degli arcana imperii, delle trame sottili e segrete di un potere che agisce nell’ombra e sotto altre vesti, giustificando di volta in volta l’eliminazione del “nemico” in nome di  obiettivi politici supremi, da perseguire côte que côte, con le forme e i mezzi che la ragion di Stato ritenga più opportuni; poco importa se siano più o meno leciti.
Sembra dunque contraddittorio, o quantomeno eccessivo, qualificare come espressione del Feindstrafrecht un sistema normativo – quale quello del diritto internazionale penale – che, sia pur perfettibile e segnato in parte, forse inevitabilmente, dalla logica di contrapposizione mutuata dal discorso bellico, mira a sostituire proprio quest’ultimo nei rapporti internazionali, al fine di limitare il più possibile il ricorso alla forza e alla violenza, nel tentativo di ricostruire delicati equilibri dello scenario mondiale .
L’affermazione della giustizia penale internazionale – soprattutto di un’istanza giurisdizionale chiamata a giudicare, accertare e sanzionare i crimini di diritto internazionale – nasce esattamente con la sostituzione del tribunale alla trincea, della bilancia alla spada, del diritto alla forza.
Nella distanza tra Norimberga e piazza Loreto, tra il diritto internazionale penale e la risoluzione violenta – ancora una volta mediante la guerra – dei conflitti mondiali, è inscritta tutta la differenza della giustizia penale internazionale .
Che se non rappresenta certo il prototipo della giustizia assoluta, è sempre qualcosa di meglio della cieca rappresaglia dei vincitori contro i vinti, pur colpevoli delle più gravi atrocità. 

In realtà, e a prescindere dagli aspetti particolari e di merito propri delle rispettive ricostruzioni  teoriche, sia la posizione di Jakobs che quella di Pastor evidenziano l’impossibilità di applicare al diritto internazionale penale le logiche e i paradigmi del diritto interno, e tra questi in particolare lo statuto teorico del diritto penale del nemico. E ciò, non soltanto in ragione del carattere del tutto peculiare dei crimini di diritto internazionale – che sembrano violare davvero quanto vi è di più umano nell’uomo – ma anche e soprattutto per l’assoluta singolarità e specificità della giustizia penale internazionale, che la pongono al di fuori e al di là delle forme e dei limiti degli istituti consolidati dell’ordinamento giuridico, nelle espressioni proprie degli Stati nazionali.
Il diritto penale – fondato sull’esigenza di tutela di beni giuridici socialmente rilevanti, rispetto a comportamenti individuali dannosi o pericolosi, oggetto di repressione da parte degli organi statali, detentori del monopolio della forza- rivela tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, dinanzi all’esigenza di disciplinare, prevenire e punire crimini efferati, commessi dai detentori del potere e dalle stesse istanze pubbliche che dovrebbero proteggere i cittadini, in esecuzione di politiche sanguinarie e talora avvalendosi della complicità o della collaborazione di parti significative della comunità politica.  
Al confine tra diritto, etica e politica, la giustizia penale internazionale nasce dalla rottura del binomio diritto (penale)/sovranità, facendosi carico dell’onere di ricostruire la pace con mezzi diversi dalla guerra e di ridare un’identità, una storia e un futuro a comunità politiche lacerate dall’uso violento del potere. Le contraddizioni da cui inevitabilmente è segnata riflettono le aspettative da cui è gravata la sua funzione, ben diversa e irriducibile a quella propria della giustizia (penale) interna.
Nei processi incardinati dinanzi ai tribunali internazionali, si sono infatti costantemente riversate istanze ignote alla dinamica e al significato dell’esercizio della giurisdizione in ambito nazionale: il bisogno, umano e assoluto, di riconoscere l’identità delle vittime, di onorare la memoria impedendo l’oblio, di narrare la storia e il vissuto di una collettività lacerata, scongiurare la guerra, di esorcizzare il dolore, ma soprattutto di restituire la possibilità di un presente e di un futuro a una comunità politica, nella consapevolezza della verità e della realtà del crimine subito .
Nel tentativo di assolvere questi “debiti”, la giustizia penale internazionale, nel suo progressivo sviluppo, è stata segnata dalla continua tensione tra l’aspirazione all’efficacia universale nella regolazione pacifica dei rapporti tra uomini e tra comunità politiche – nonostante il ricorso alla forza caratterizzi ancora la dinamica delle relazioni internazionali - , e la constatazione e il timore costante di una condanna all’impotenza totale, dovuta al superamento dei limiti (ma anche delle prerogative) della sovranità statuale.


14. Punire o ricordare?

Sono proprio il carattere eccezionale, l’‘assoluta’ violenza dei crimini di diritto internazionale, la loro capacità di minare le basi stesse dell’identità collettiva e di rendere il potere strumento di distruzione dell’umanità intera, a determinare nelle concrete modalià della loro repressione gravi torsioni dei principi fondativi dei sistemi penali, con il rischio di riflettere anche nel diritto internazionale penale il paradigma del ‘diritto penale del nemico’ che di per sé, mina in radice ogni possibilità di riconciliazione e ricostruzione dell’identità collettiva. Fini, questi, che invece dichiaratamente perseguono l’accertamento, la repressione e la prevenzione dei crimini di diritto internazionale.
E’ infatti proprio l’adozione di paradigmi ‘speciali’ di diritto penale a rivelarsi fallimentare e disfunzionale, rispetto all’obiettivo di consentire a una collettività lacerata dall’esperienza dei crimini di diritto internazionale, di riappropriarsi di una storia davvero comune e di ricostruire la propria identità collettiva e la propria memoria storica.
Riproporre invece su questo terreno paradigmi dell’ostilità, della contrapposizione radicale e dell’impossibilità della mediazione come quelli propri del diritto penale del nemico,  rischia di strumentalizzare il colpevole a fini performativi, ad un tempo violando la dignità della persona e tradendo quella che è la caratteristica fondativi del diritto (soprattutto, ma non solo, penale), ovvero la sua differenza dalla violenza. E inoltre, la realtà dimostra la radicale inefficacia di questo paradigma del diritto penale rispetto al fine dichiarato di consentire una ‘pacificazione sociale’, dal momento che non è certo l’eccezionale violenza repressiva a fondare il presupposto del riconoscimento reciproco, su cui si basa la riconciliazione necessaria alla ricostruzione della memoria storica e dell’identità sociale, culturale e politica di una collettività.
Emblema di questo ‘Feind-orientierung’ del diritto penale, (anche) nazionale, rispetto ai crimini di diritto internazionale, sono in particolare i ‘Kimaschutz-delikten’, i delitti che cioè – per dirla con Jakobs – mirano alla ‘protezione di un clima’ culturale, di un atteggiamento verso la storia comune e la memoria storica di una collettività. Si tratta di tipici reati di pericolo astratto, di opinione , che rischiando di attribuire rilevanza penale a comportamenti meramente sintomatici di una Gesinnung, mirano a tutelare la mera sicurezza cognitiva e la fedeltá dei consociati nella vigenza dell´ordinamento normativo e nella declinazione della memoria storica come verità ‘ufficiale e di Stato’ , in antinomia con l’impostazione liberaldemocratica dello Stato.  I reati di opinione hanno del resto rappresentato sempre una costante della legislazione d’emergenza  e del paradigma simbolico-performativo caratteristico del ‘diritto penale del nemico’. Sono fattispecie che spesso hanno peraltro un effetto disfunzionale, contrario allo scopo, rischiando di rafforzare il fenomeno che intendono combattere, nella misura in cui finiscono per vittimizzare l’autore e rappresentare così un fattore di potenziale catalizzazione e aggregazione dei consensi attorno agli episodi contrastati. Del resto, se il fine non giustifica i mezzi, uno Stato di diritto, sia pure per contrastare la diffusione di idee illiberali, non può divenire esso stesso, e per primo, illiberale e assumere così metodi, logiche e codici propri del sistema assiologico che si intende stigmatizzare.
“Un'offesa alla memoria e alla storia". Così il Guardasigilli Mastella ha definito la negazione dell’Olocausto, su cui ha presentato al Consiglio dei Ministri un disegno di legge, che punisce come delitto, tra l’altro, il comportamento di chi renda affermazioni volte a negare la tragedia della Shoah. Il ddl è stato  presentato proprio a ridosso del 27 gennaio. Data significativa, che coincide con la celebrazione della Giornata della Memoria.
Giornata istituita per ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, e di tutti coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, all’orrore dei campi di concentramento, dove –ricorda Hannah Arendt – “non si è commesso un male superficiale, si è tentato di estirpare dal mondo il concetto stesso di uomo".
A distanza di più di sessant’anni, è ancora forte il bisogno di ricordare quel 27 gennaio del 1945, quando i soldati dell'armata rossa entrarono ad Auschwitz, ormai quasi completamente evacuato, ma che recava ancora i segni indelebili di una violenza cieca e distruttiva, di uno di quei punti di non ritorno della storia, in cui l’umanità, insieme carnefice e vittima di se stessa, ha provato sulla propria pelle tutto il non senso e la banalità del male. Il male che infligge chi si arroga il potere di decidere che il destino di altri uomini sarebbe stato quello di non avere “più destino alcuno”. 
“Il lavoro rende liberi”. Con queste parole intagliate nel ferro arrugginito dei cancelli dei lager nazisti, si accoglievano con scherno ipocrita, come si sa, i deportati che facevano ingresso nei campi di concentramento. Quei campi a lungo ne avrebbero custodito le ceneri, i frammenti di corpi, le identità ridotte a numeri di matricole, le storie, le speranze in un silenzio che ci portiamo dentro ancora oggi tutti noi.  Le immagini dei deportati dai corpi straziati, dagli occhi grandi in quei visi smunti e scavati, dalle labbra serrate perché incapaci di comunicare e descrivere emozioni e pensieri negati, espropriati e consumati dalla violenza, restano per noi oggi il simbolo di una ferita che nessuna condanna potrà mai rimarginare, l’emblema di una violenza che immunizziamo con solenni enunciazioni di diritti inviolabili sulla carta, ma che nella realtà quotidiana tornano ancora una volta ad essere calpestati. Ipocrita e vile, la promessa di libertà attraverso il lavoro, incisa nelle insegne dei lager, era una fragile speranza che teneva in vita i deportati, giorno dopo giorno costretti ad una schiavitù brutale che lentamente li uccideva. E, prima ancora, ne annientava la dignità, il valore, la libertà, la “nuda vita” , riducendo l’uomo a strumento, il corpo ad oggetto e misura della forza del potere e della violenza cieca dell’odio.
Di fronte a quelle testimonianze di una delle pagine più buie della storia, un singolare meccanismo di rimozione ci convince della lontananza di quei momenti, e codici, riti, norme e convenzioni politiche ci rassicurano sull’intangibilità dei diritti e delle libertà che dopo quelle stragi si sono voluti affermare e ribadire come patrimonio comune ed inviolabile di tutta l’umanità. E di fronte al bisogno di ricordare, perché “mai più” si possa vedere un uomo uccidere e rendere schiavo un altro uomo, si chiede oggi alla legge e alla minaccia della pena di impedire l’oblio, la negazione di un passato che sembra essere eterno. E si preferisce punire anziché documentare tutti coloro che si ostinano a credere che quelle pagine buie della storia non siano in realtà mai state scritte, pensando che si possa affidare al diritto e alla pena il bisogno di riaffermare la sanzione e la condanna di una tragedia della quale tutti, oggi come ieri, non possiamo non sentirci responsabili. Non foss’altro per quel senso di “colpa metafisica” di cui ci parla Jaspers, per il quale umanità vuol dire essere capaci di riconoscere se stessi negli altri, e vivere degnamente significa vivere insieme, o non vivere affatto. E se davvero, come suggerisce Jaspers, "il fatto di essere ancora vivi [dopo Auschwitz] è una colpa", può esistere davvero una pena giusta per questa colpa, incommensurabile e totalizzante?  Forse sono proprio questi i crimini che “non si possono punire né perdonare”. Perché nati da quel “male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato, coi malvagi motivi dell’interesse egoistico, dell’avidità, dell’invidia, del risentimento e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire" (H. Arendt).

15. Giustizia senza pena?



L’importanza e la potenzialità – forse ancora inespressa – della giustizia penale internazionale si rivelano del resto, in tutta la loro portata “rivoluzionaria”, soprattutto in considerazione degli sviluppi recenti dei rapporti internazionali e dei rischi che presentano il ricorso sistematico a guerre preventive e a logiche di forza nello scenario mondiale.
Il riferimento all’operazione sanguinaria dell’Infinitive Justice e alla guerra asimmetrica, globale e preventiva (“del bene contro il male”: sono parole di George W.), indetta dall’amministrazione Bush nei confronti della jihad, e di un non meglio precisato nemico dall’identità incerta, è ovviamente implicito, ma si tratta solo dell’espressione di una tendenza costante nella storia delle relazioni internazionali.
Ed è significativo che il lutto collettivo legato a Ground Zero si collochi cronologicamente nel mezzo di un percorso che, dalla fine della guerra fredda, ha visto il progressivo sviluppo della giustizia penale internazionale, a partire dalle esperienze di Norimberga e Tokyo, sino alla negazione dell’immunità al generale Pinochet da parte dei lords inglesi il 24 marzo 1999 (letta come inizio del processo di erosione della sovranità statuale in nome della lotta all’impunità dei crimini di diritto internazionale), al processo a Slobodan Milosevi? dinanzi ad una giurisdizione internazionale (iniziato il 12 ottobre 2001, sebbene risalga al maggio del 1999 la sua messa in stato di accusa per crimini contro l’umanità), ed infine all’istituzione della Corte penale internazionale (11 aprile 2002).
L’episodio tragico del Nine eleven, ma soprattutto ciò che ne è seguito (la guerra preventiva, la tortura sistematica praticata nei confronti degli enemy aliens ad Abu Ghraib e Guantànamo, l’istituzione delle military commissions, la massiva violazione delle garanzie e dei diritti civili non solo dei “nemici combattenti”, ma anche dei cittadini statunitensi, nella patria delle libertà) hanno dunque rappresentato una brusca battuta d’arresto, ed un richiamo al “principio di realtà e di conservazione”, nella dinamica di sviluppo e nel processo di affermazione della giustizia penale internazionale.
L’attacco alle torri gemelle, la percezione collettiva della fragilità finanche della più “invulnerabile” potenza mondiale, e il “Power of Mourning and Violence” hanno riportato, ancora una volta, l’asse del mondo nel baricentro dell’”equilibrio del terrore” e della forza, tornando a schierare gli Stati su fronti contrapposti, lungo i confini della sovranità, secondo le logiche dell’amico/nemico.
Il riflesso di questo nuovo conflitto si è proiettato come un cono d’ombra sulla dinamica della giustizia penale internazionale, che ha visto la sua più netta affermazione nel lasso di tempo che separa il crollo del muro di Berlino da Ground Zero. In un contesto cioè di ricostruzione e ricomposizione degli equilibri del pianeta, all’esito di una guerra – quale la guerra fredda - mai dichiarata eppure combattuta e vissuta nelle maglie delle relazioni internazionali, e intensa al punto da condizionare le politiche mondiali, subordinando l’esigenza di giustizia e la fiducia nel diritto al bisogno di sicurezza e al ricorso sistematico alla forza.
Se quindi la giustizia penale internazionale è testimone e prodotto ad un tempo di un “mondo orfano di divisioni” , essa rischia di soccombere ancora una volta sotto il peso della violenza, quando – come oggi – l’equilibrio del pianeta torna a organizzarsi attorno a nuove trincee. Ove questo rischio si traducesse in realtà, sarebbe dimostrato l’assunto schmittiano della necessaria impostazione della politica secondo la logica dell’amico/nemico.
Ma forse quello che ha portato all’istituzione della Corte penale internazionale è un processo nonostante tutto inarrestabile, denso sì di contraddizioni ma anche carico di aspettative di cui non è più possibile ammettere la delusione, e che sfida non solo i topoi della sovranità, ma la stessa concezione schmittiana della politica come relazione polemologica.
Del resto, che l’esigenza di una giustizia affermata attraverso il diritto e non mediante la forza, sia intimamente legato al bisogno di pace e di ricostruzione che sorge dall’esperienza della guerra, è dimostrato anche dalle più lontane origini della giustizia penale internazionale, allora ancora in nuce. Le atrocità di cui si sono macchiati gli eserciti (soprattutto, a quanto risulta, tedeschi) nel corso della Grande Guerra, infatti, hanno indotto nell’opinione pubblica di allora l’esigenza di giudicare e condannare i crimini di guerra e le innumerevoli violazioni dei diritti umani, praticati dentro e fuori dalle trincee, ma comunque in occasione della guerra e in tale contesto.
Fu proprio nel primo dopoguerra che, di fronte all’indignazione per i crimini subiti, una parte significativa della popolazione di Francia e Gran Bretagna propose di sublimare il bisogno di vendetta in un’istanza di giustizia con una competenza estesa ben oltre i limiti nazionali, che giudicasse e sanzionasse la violenza della guerra.
Se questa aspirazione non si è poi tradotta in nulla più che la statuizione dell’art. 227 del trattato di Versailles, è perchè ancora una volta la violenza e la più nota via del ricorso alla guerra ha prevalso, nella trama dei rapporti internazionali.
Ma che si trattasse di una guerra intimamente legata all’idea ordalica della vendetta, è dimostrato dalle parole pronunciate da Winston Churchill alla House of Commons il 23 ottobre 1942: “La punizione di questi crimini deve ormai costituire uno degli obiettivi principali della guerra”. Esattamente come prima del XII secolo, il luogo di attuazione della giustizia (più che mai retributiva) tornava ad essere il campo di battaglia: l’ordalia anzichè il processo. 
I progressi e le evoluzioni (soprattutto in termini di Verrechtlihcung) di cui la giustizia penale internazionale è stata protagonista da allora, sino ad oggi, all’istituzione della Corte penale internazionale, delineano tuttavia uno scenario diverso, che potrebbe davvero rappresentare     una ‘tardiva vittoria di Antigone’; di quelle leggi universali supreme invocate da Antigone, rispetto alle leggi particolari della polis di Creonte . Ciò comporterebbe ovviamente un perfezionamento e un parziale ripensamento del sistema della giustizia internazionale penale, che al di là delle modifiche puntuali sul terreno delle norme e delle procedure, possa in particolare investire sul potenziale simbolico del diritto internazionale penale. Per ‘potenziale simbolico’ intendo in tale contesto non il carattere soltanto espressivo-promozionale –cui in realtà troppo spesso corrisponde la natura ineffettiva che le norme penali dimostrano negli ordinamenti nazionali - ma la valenza performativa che caratterizza la giustizia penale internazionale, in termini di contributo alla ricostruzione di un’identità collettiva, di una memoria comune e di una comprensione del passato e del vissuto di una comunità politica, in funzione della garanzia per il presente e per il futuro, dei diritti e delle libertà fondamentali che sono il tessuto fondativo dello jus cogens. Il rapporto tra memoria, storia, legame sociale e sintesi politica, che fonda quello che Habermas definisce l’ “uso pubblico della storia”, dimostra come il processo, la condanna e la pena siano momenti centrali nel nesso tra memoria e storia. “Memoria quando il processo, nella misura in cui attraverso di esso i fatti sono rivissuti come se la distanza si annullasse, ed esso assume la funzione di cerimonia collettiva, di rito che tramanda una tradizione e rafforza il nesso con il passato; storia quando il processo, nella misura in cui attraverso di esso i fatti sono rivissuti come se la distanza si annullasse, ed esso assume la funzione di cerimonia collettiva, di rito che tramanda una tradizione e rafforza il nesso con il passato; storia quando il processo e la condanna implicano una riflessione esplicita sulla distanza che ci separa da questo passato e naturalmente un giudizio su di esso” . 
E’ a questo proposito importante sottolineare che la natura eccezionale dei crimini contro l’umanità (informulabili, difficilmente imputabili, indimostrabili, inafferrabili, inenarrabili, imprescrittibili)  si riflette inevitabilmente sulle caratteristiche, altrettanto eccezionali, del sistema di giustizia deputato al loro accertamento ed al contrasto all’impunità ; sistema da alcuni stigmatizzato quale esempio paradigmatico del diritto penale del nemico. E di fronte ai paradossi ed alle violazioni dei principi garantistici del diritto penale, cui conduce l’esigenza di repressione di tali crimini, è forse legittimo dubitare dell’efficacia del paradigma tradizionale della giustizia penale (e soprattutto della pena) in un contesto così segnato dal legame – profondo al punto da cancellare ogni confine – tra diritto e morale, giustizia e politica, repressione e vendetta, dike e themis, perdono e pace. Non si tratta forse proprio di quei crimini che secondo Hannah Arendt “ trascendono il dominio delle cose umane e le potenzialità del potere umano, distruggendoli entrambi radicalmente ovunque compaiano”? Non sono forse questi i soli crimini che “non si possono punire né perdonare”?.
L’epochè, la sospensione del giudizio che questi crimini paradossali impongono, esige forse un ripensamento dei limiti del diritto e della giustizia, della loro funzione e del loro valore. L’esigenza narrativa e comunicativa di rendersi testimone del crimine subito in favore della giustizia, esprime qualcosa di più del bisogno di essere riconosciuta come tale. Indica cioè l’esigenza di declinare la giustizia nelle forme della ricostruzione collettiva del passato, dell’affermazione pubblica e condivisa della natura criminale dei fatti subiti dalle vittime; la reintegrazione sociale sembra essere la sola forma di pacificazione possibile. La giustizia che, sola, consente il perdono, presuppone innanzitutto la fedeltà alla storia, che a sua volta si alimenta della ricerca della verità nel processo, quale spazio simbolico e reale ad un tempo di reciproco riconoscimento.
E’una verità conflittuale (e non consensuale, come quella enunciata dai protocolli scientifici) perchè affermata all’esito di un contraddittorio tra opposte asserzioni, ineludibile perchè imposta dal divieto di non liquet che grava sul giudice; è riparazione e prevenzione in sè, che può sostituire la pena ed assolverne la funzione quando garantisce il riconoscimento pubblico del crimine e la riconciliazione di vittime e colpevoli. La narrazione, da parte della vittima, del crimine subito, supera i limiti della testimonianza e costituisce il tessuto di una comune e condivisa ricostruzione della verità. Appellandosi alla semantica comune della memoria, la vittima ricostruisce quel senso comune di cui si alimenta la vita politica; quella sola facoltà di donarsi reciprocamente le proprie esperienze che secondo Hannah Arendt esprime la “comune misura” del dialogo e del riconoscimento vicendevole degli uni verso gli altri; nucleo essenziale e costitutivo della politica come del perdono. I processi celebrati dinanzi ai tribunali internazionali hanno sottolineato soprattutto l’esigenza delle vittime di poter contribuire, con la propria narrazione e rappresentazione delle esperienze vissute, degli abusi subiti, delle tragedie cui hanno assistito, ad una ricostruzione comune della memoria storica del passato e di una nuova identità collettiva. L’esigenza, da parte delle vittime, di testimoniare le proprie esperienze, vissute e subite, di crimini di per sè inenarrabili, ha rappresentato la parte principale e più feconda dei processi celebrati dinanzi ai tribunali ad hoc, al punto da assorbirne i contenuti, le forme e i riti e da mutarne radicalmente l’impostazione, delineneando così la possibilità di concepire in modo del tutto nuovo il rapporto tra il diritto e la pena, l’accertamento della responsabilità, la condanna, la sanzione.  
Ed in tale prospettiva l’esperienza della Truth and Reconciliation Commission del Sudafrica rappresenta un momento e un paradigma fondamentale per la giustizia penale internazionale, soprattutto nella direzione di una scissione tra criminalizzazione primaria e processo, processo e condanna, condanna e pena, rispetto al fine della ricostruzione dell’identità collettiva e della memoria storica della comunità politica.
Quella della ‘giustizia ricostruttiva’ è la risposta forse più interessante ei confronti della paradossalità e della tragicità di crimini che, come diceva Hannah Arendt, non si possono ‘punire né perdonare’. Per crimini come quelli contro l’umanità ogni pena sembra davvero inadeguata, incapace di rispondere a funzioni retributive, preventive generali o speciali, rieducative, e soprattutto riconciliative.
La scelta della Commissione sudafricana di prevedere processi volti a riconoscere il carattere di crimini contro l’umanità alle violazioni di massa praticate negli anni dell’apartheid, attribuendone la responsabilità a persone precise, senza tuttavia irrogare loro una pena, è una scelta che riflette il bisogno di scindere il riconoscimento, in capo a colpevoli determinati, della responsabilità penale per crimini di un’efferatezza assoluta, e la correlativa identità di vittime nei confronti di quanti tali crimini abbiano subito, dalla necessità di irrogare una pena, che sarebbe comunque avvertita come inadeguata ad esprimere la riprovevolezza e la colpa per quelle tragedie. Si tratta, in altri termini, del riconoscimento della possibilità (e forse anche della necessità) che il potenziale simbolico del penale si dispieghi in assenza dell’espiazione (e sinanche della irrogazione) della pena, da parte di chi scelga di sottoporsi al processo.
La singolarità di questa scelta- che sta tutta nel non punire chi si sottoponga volontariamente al processo – rimanda a una concezione della giustizia penale “come istanza dal potenziale soprattutto simbolico, utilizzato per riconciliare, (...), ossia ricostruire un’identità collettiva nuova mediante la costruzione di una memoria comune del passato e di un giudizio solenne e definitivo su di esso” . Questo dimostra come il potenziale simbolico del penale possa assumere una valenza del tutto nuova e diversa sul terreno della giustizia penale internazionale e della risposta ai crimini di diritto internazionale, in cui la funzione prioritaria del processo e del diritto sembra proprio essere il contributo alla costruzione di una memoria comune e di una nuova identità politica, sociale e culturale, che superi e componga le fratture e le lacerazioni nate dall’esperienza di tragedie collettive. Il processo fa in questo senso da tramite tra memoria e storia, riattualizzando la memoria, riconoscendo le violazioni e imponendo su di esse una riflessione collettiva, laddove la condanna come accertamento della responsabilità assolve alla funzione di giudicare il passato e riconoscere le vittime e i colpevoli come tali. Quanto alla pena, “o meglio alla sua espiazione, se dovessimo scoprire che essa non è sempre indispensabile per la costruzione di una memoria comune e di un’identità collettiva nuova, questo non farebbe che rafforzare” la legittimazione e le aspettative che continuiamo a riporre nella giustizia penale internazionale, quale strumento di tutela reale dei diritti umani, contro gli arbitri e gli abusi del potere.  Perché davvero i crimini di diritto internazionale sul piano globale e la costruzione della collettività e della identità politica sul piano interno manifestano un’antitesi tra il potere e l’altro-da-sé, che si articola su una dimensione esterna e trascendente i confini della sovranità: “l’uniersalismo dei diritti umani nutre una nuova divisione che non passa più tra il qui e l’altrove, né tra il presente e il futuro, ma tra gli uomini e l potere politico, tra gli uomini stessi, se non addirittura all’interno dell’uomo. Il luogo utopico dell’umanità è un luogo senza confini, e a ragione: è da lì che dovrebbero venire le divisioni, è un principio separatore. Simbolizza la presenza del’altro n noi, della vittima accanto al boia nella medesima comunità” . E’ del resto Lejbowicz a ricordare che la fraternità presuppone l’assenza di nemici all’esterno. “Il nemico è all’interno, all’interno dell’umanità, all’interno dello Stato, all’interno dell’individuo. Quanto al male che ciascuno ha dentro di sé, ognuno ha il dovere di elaborarlo e di trasformarlo” .









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