Home            Chi Siamo             Links             Cerca             Contattaci


I cancelli del destino

Giuseppe Pablo Stralla

Il primo impatto con il nuovo alloggio fu triste… Era un appartamento molto piccolo situato in un edificio “di ringhiera“, sì, quelli con immensi scaloni centrali che sfociano sui ballatoi e di lì ai balconi di destra e di sinistra (non in senso politico…), dove la ringhiera in ferro, traballante e ricoperta da varie mani di vernice per nascondere una ruggine mai vinta, ti accompagnava all’ingresso degli alloggi; balcone in comune, gabinetto in comune.

A dettare i miei confini di fanciullo c’era un pesante cancello di ferro e lamiera, completamente arrugginito, la cui altezza culminava con punte aguzze. La sua ombra nelle calde giornate estive incombeva minacciosa sul cortile dove noi bambini si giocava. Era proibito per tutti noi arrampicarsi sul cancello, cosa che veniva spesso disattesa poiché a volte, giocando a palla, un calcio più forte o un colpo dato male con la testa proiettavano il pallone al di là del “confine“… Era chiuso con un grosso catenaccio pesante, di ferro ossidato e ogni famiglia possedeva una copia della chiave di quel lucchetto, un modello strano a forma di sfera, di ferro arrugginito anch’esso, e quando andavo a scuola o a fare piccole commissioni per mia nonna, il cancello si apriva anche per me!

Il cancello era il protagonista nella vita quotidiana dell’intero condominio. Durante il periodo estivo, l’ombra cupa delle sue punte aguzze si allungava nel cortile formando un disegno sul quale si giocava saltando a piedi pari da una punta all’altra e chi sbagliava rimaneva “infilzato“ sull’ombra riflessa nel cemento rovente del cortile, la penalità consisteva nello stare fermi un giro e chi sommava più infilzate perdeva. Un giorno però, ignorando tutti i divieti, colpevole il pallone, dovetti dare la scalata al cancello: toccava a me, al responsabile di quella svirgolata violenta che aveva fatto saltare la palla in strada. Cominciai ad arrampicarmi e quando, giunto alla sommità, scavalcai le sue punte, mi scivolò il piede d’appoggio e mi ritrovai a testa in giù con il ferro aguzzo conficcato nella coscia. Urlai disperato e così fecero anche i miei compagni di gioco che assistevano alla mia temeraria impresa. Arrivò subito Luigi, un uomo che viveva con sua madre al piano rialzato sul balcone opposto a quello dove stavamo noi, mi staccò dalla punta e mi prese in braccio, intanto era accorsa anche mia nonna, spaventata, lei era una crocerossina infermiera e seppe porre un immediato rimedio alla lacerazione sanguinante della mia gamba. Io ero più impaurito per l’immaginabile reazione punitiva che per il dolore della mia ferita. Mi portarono al Pronto Soccorso per farmi fare un’antitetanica e lì mi diedero 6 punti di sutura, i primi punti raccolti sulla tessera della mia vita. Oggi sorrido a quel ricordo con nostalgica tenerezza verso quella donna che mi allevò dedicandosi totalmente a me. La punizione comunque non tardò ad arrivare e, a parte un paio di sculaccioni, mi venne proibito di frequentare il cortile per un’intera settimana! Per me fu il castigo peggiore: chiuso in casa dopo la scuola, sentir gridare e giocare i miei compagni senza potervi partecipare, che rabbia! Era la prima volta che non avevo rispettato un divieto, ne compresi la gravità, ma a quanto pare ciò non servì a cambiare il corso del destino… ruppi ancora molti divieti.

Anche i compleanni di noi bambini abitanti della casa di ringhiera si festeggiavano in cortile, per l’occasione tutte le mamme, le nonne o le sorelle si davano un gran daffare per preparare dolci casalinghi: torte, zuppe inglesi, biscotti e macedonie, che venivano poi appoggiati in bella mostra su tavoloni improvvisati con cavalletti e assi di legno coperte con lenzuola candide che profumavano di bucato, messe lì a mo’ di tovaglie. I nostri compleanni si festeggiavano al sabato o alla domenica durante il periodo scolastico, così non si perdeva la concentrazione sui nostri compiti quotidiani, mentre da giugno a tutto settembre qualsiasi giorno era buono, con l’unica attenzione a iniziare la festicciola al pomeriggio verso l’imbrunire, così i genitori che lavoravano potevano arrivare in tempo e quando il sole tramontava entravano in azione delle lampadine collegate a una prolunga che, attraversando il cortile dai balconi del piano rialzato, veniva fissata al famoso “cancello”!

Anche i momenti più tristi passavano di là: il carro funebre che veniva a portar via la cassa da morto di questo o quel vicino, o l’ambulanza che irrompeva attraverso il cancello lasciato aperto per l’occasione e, mentre gli adulti ci tenevano stretti sui balconi per evitare che la nostra curiosità invadesse il cortile, con i suoi lampeggianti e la sirena ci metteva i brividi. Così correvamo a nasconderci in casa dietro i vetri della finestra, attraverso i quali i riflessi dei rotanti blu riempivano di lampi i muri della cucina.

La vita in un edificio di ringhiera è molto attiva, ci si conosce tutti. Sui ballatoi a volte si formavano improvvisate riunioni tra vicini: chi si lamentava del baccano che noi bambini si faceva in cortile, chi invece demonizzava le cartacce che lasciavamo a terra quali residui bellici dopo una guerra col tirascartocci… Almeno questi i motivi a noi noti, poi però si venivano a sapere anche le discordie causate dai grandi, che quasi sempre vertevano sull’uso del cesso, il gabinetto in comune, uno per balcone, — unico vero neo di una casa di ringhiera — o sugli zerbini calpestati e sporcati da piedi poco attenti in quello stretto passaggio che il balcone lasciava per raggiungere il proprio appartamento. Nelle case di ringhiera esistono le voci da richiamo, riconoscibili al volo e che sentivi echeggiare: «Ninoo, papà t’aspetta in fondo allo scalone..» oppure: «Italo, sbriiigati che c’hai la pasta che si fredda…», questo dava il senso dell’orario e delle presenze nel cortile. C’era vita, c’era amore e protezione in quell’edificio, vi era una povertà dignitosamente condivisa, quando qualche famiglia si trasferiva, si diceva: “hanno fatto i soldi”.

Quanti ricordi, felici e tristi, si affacciano alla mia mente tra le sbarre arrugginite di quel vecchio, enorme, tetro cancello! Così come sono tetre oggi le sbarre che vedo dalla mia finestra qui, in carcere, mentre ripenso alla mia infanzia piena di solitudine, di un cronico bisogno di un papà. Mio padre non arrivava mai dal cancello, non mi abbracciava sulle scale e nemmeno mi sgridava quando mi attardavo nel cortile all’ora di cenare, come invece accadeva ai miei amici di cortile; però avevo mia nonna Nina, avevo pure mia mamma Enrica, ma lei per motivi di lavoro era a casa solo nei fine settimana, e ciò era anche motivo di festa: ogni domenica a tavola vi era qualcosa di speciale che mia nonna cucinava per noi… forse più per me!

Torino, questa la città dove sono nato e cresciuto. Cittadina operaia legata alla Fiat, alla grande immigrazione che riempiva le case di ringhiera e le prime case popolari con ritmi di sviluppo concitati, stressanti, e io, piccolo scolaro in quei tempi in cui tutti facevano di tutto, trovavo la mia isola felice all’oratorio. Quand’ero bambino non esisteva la scuola a tempo pieno e il dopo scuola si svolgeva nella parrocchia di zona, all’oratorio appunto, e lì studiavo, facevo i compiti e dopo potevo anche giocare con gli altri compagni a pallone o a calciobalilla fino alle cinque di sera e poi mi fermavo fino alle sei per vedere i boy scout. Rimanevo incantato quando li vedevo seduti a gambe incrociate per terra in semicircolo, con le loro belle uniformi, il fazzoletto legato al collo, il cappello a larghe tese con il cordino che scendeva dai lati e passava sotto il mento, a me venivano in mente le Giubbe Rosse canadesi, e li invidiavo benevolmente. Con il tempo, vedendo la mia passione, un bel giorno mi chiamò il Gran Mogol (così chiamavo il loro capo, associandolo al capo delle giovani marmotte e a Qui Quo Qua) e venni nominato “Lupetto“. Finalmente ebbi anch’io il mio bel cappello e il fazzoletto con lo stemma da legarmi intorno al collo!

La chiesa di quella parrocchia è dedicata a San Pellegrino, una costruzione gotica formata da una grande navata centrale e due più piccole laterali, lì erano situati i confessionali che a volte violavamo giocando a nascondino, facendo attenzione a non essere uditi. C’era sempre un profumo intenso di candele accese e d’incenso bruciato, erano i frati dell’Ordine dei Servi di Maria a dirigere quella parrocchia. Avevo molta soggezione di Padre Germano, il priore, aveva una voce cavernosa e una barba lunga e scura, chissà perché ma nel mio immaginario lo associavo al terribile “Mangiafuoco”, quello della favola di Pinocchio, mentre invece era buono e mi permetteva di aiutare il sacrestano. Per me era una festa quando al vespro, entravamo da una porta angusta, scura e di pesante legno massiccio che dalla chiesa ci immetteva alla base del campanile. Vi erano quattro funi che piombavano giù dall’alto e tirandole davano vita al suono delle campane. Renzo, il sacrestano, mi dava il capo della fune più grossa, quella che muoveva il campanone e ridendo mi esortava a tirarla, era pesantissimo ma, quando cominciava a dare i suoi cupi rintocchi, mi aggrappavo alla corda con tutte le mie forze e mi lasciavo sollevare dal moto di ritorno. Provavo una felicità che ancor oggi mi emoziona: momenti sereni della mia fanciullezza innocente e sensibile nel cogliere, da semplici gesti, il senso del mistero, della spiritualità! Finita la funzione serale, aiutavo il buon vecchio Renzo a spegnere le candele con un bastone, anzi, a pensarci meglio, era una canna con un cappuccio in ferro annerito dal fumo delle fiammelle ballerine che scomparivano al suo interno come per magia.

Oggi sono qui in carcere a cercare nel mio ieri quel bambino ingenuo cresciuto troppo in fretta in un periodo di trasformazione sociale. L’ombra del ’68 ha in qualche modo influenzato le mie scelte; sbagliate o giuste che potessero essere, le feci con convinzione… Adesso con il senno del poi posso affermare che in fondo sarebbe stato meglio rimanere tra i Boy Scout! Con loro imparai ad amare le “nostre” montagne innevate, che si profilano intorno a Torino: le Alpi. Mi vengono in mente i ritiri invernali in Val d’Aosta, eravamo ospiti in un antico castello, costruito totalmente in pietra sulle pendici di un monte con la cima decorata da un esteso ghiacciaio che al sole brillava come un diamante. La sera ci raccoglievamo intorno a un gran falò e i capi scout raccontavano con dovizia di particolari alcune leggende nate tra quelle montagne e si rimaneva attoniti ad ascoltare… Sullo sfondo il crepitio della legna che ardeva allegra lanciando ogni tanto piccole scintille nell’oscurità della notte, le fiamme si riflettevano sui nostri visi dandoci un’aria quasi surreale, poi, da qualche parte, spuntava sempre fuori una chitarra e s’intonavano canti montanari con improvvisati cori, la cui eco, che ci tornava tra le alte mura merlate dell’antico maniero, interrompeva i suoi ovattati silenzi

Di quel bambino mi arrivano altri ricordi, tristi e dolorosi.

Enrica non è mai stata per me la mamma, quel ruolo lo coprì mia nonna Nina. Quando decise di risposarsi, lei e il suo nuovo marito andarono a vivere in un appartamento distante dalla casa di ringhiera, dove rimanemmo io e la nonna. Incontravo mia madre solo la domenica, a volte andavo a pranzo da loro. In quella casa c’era il bagno, un vero lusso e potevo usarlo: mi lavavo e… l’acqua calda era continua! A pranzo però mi sedevo a tavola intimorito, litigavano sempre loro due, poi lui usciva sbattendo la porta e lei andava in camera sua a piangere. Ritornavo alla mia casa di ringhiera con due sensazioni diverse nel cuore: una era di tristezza nel salutarla e vederla star male, l’altra era di rilassamento, di sicurezza.

Quando nacque mio fratello (non mi piace la parola fratellastro, è dispregiativa) era l’ottobre del ’65, praticamente ero più vecchio di lui di 10 anni e 8 mesi. Se fino a quel momento le vite di mia nonna e la mia erano separate da quelle di mia madre e suo marito, quella nascita le unì! Andammo a vivere tutti insieme in un bell’alloggio popolare, alle Vallette, quartiere periferico di Torino, pieno di giardini e di campagna tutt’intorno. Io e nonna avevamo una stanza grande tutta per noi e c’era una sala da pranzo, attraverso un lungo corridoio si arrivava al bagno, allo sgabuzzino, alla cucina e, in fondo, alla camera matrimoniale, dove oltre al lettone spiccava la culla del neonato. Finalmente anch’io avevo fatto i soldi lasciando la casa di ringhiera.

Nella nuova casa avevo finalmente il bagno dentro ma non c’era più il cortile, non c’erano i miei compagni di gioco, padre Germano era lontano e le campane non potevo più farle suonare. Provai a frequentare la nuova parrocchia: al posto dei frati vi erano i preti, a sostituire le campane c’era un giradischi collegato a un altoparlante situato a metà campanile; le campane erano solo in bella mostra, mummificate dalla tecnologia. Non riuscii più a far parte dell’oratorio… Era finito l’incantesimo! In casa il clima era sempre teso, mia nonna faceva praticamente la balia a mio fratello e si prodigava per non farmi sentire meno importante. Sia il mio patrigno (altra parola che odio) che mia madre lavoravano. Io andavo a scuola, facevo la prima media; alla sera, quando tornava a casa, Carlo, questo il nome del padre di mio fratello, mi ignorava, prendeva in braccio suo figlio, per lui aveva sempre un giocattolino, una sorpresa, per me qualche rara volta una caramella.

Mio fratello Gian Paolo, durante i primi anni della sua vita, mi tolse la pace, oltre alle attenzioni esclusive della nonna e al poco tempo che mi dedicava mia madre. Quando Geppo faceva la nanna dovevo stare in silenzio, non potevo suonare il campanello di casa e se uscivo per andare a giocare mi facevo aprire il portone dalla sarta, una donna che viveva sola nell’alloggio del piano terreno, con un bel giardinetto curato. La sarta era un’anziana zitella, un po’ gobba e zoppicante per una poliomielite, ma molto gentile e sorridente con me, che ogni tanto andavo pure a fare merenda con i biscotti che lei stessa sfornava e della limonata fresca che d’estate preparava per dissetarmi. Così non davo fastidio all’implume che dormiva.

Con Geppo (questo il soprannome che affibbiai a mio fratello, rifacendomi al nome di un diavoletto protagonista di un fumetto che leggevo a quei tempi) iniziai a giocare quando ebbe circa tre anni. Così, fra giochi, litigi, scenate di Carlo e pianti di mia madre, passarono quasi sei anni finché un giorno scoppiò una lite furibonda tra Carlo e mia nonna, che era stanca di veder maltrattare sua figlia. Purtroppo la lite degenerò e Carlo la colpì con un calcio al ventre. Quando fui in grado di capire cos’era accaduto, in casa c’erano i volontari dell’autoambulanza, Carlo giaceva a terra con un rivolo di sangue che dai capelli scendeva sul collo e andava a gocciolare sul tappeto buono della sala da pranzo formando una chiazza scura: accecato dalla rabbia avevo trovato la forza di spaccargli una sedia sulla testa. La scelta egoistica di mia madre, che aveva riunito la famiglia solo per avere un servizio domestico gratuito e fidato, era sfociato in un dramma.

Ce ne andammo io e mia nonna, legati da un destino che ci accompagnò fino a quando la vita decise di separarci per sempre. Ci stabilimmo da una sua sorella, la zia Rosa che viveva in Liguria, a Imperia.

Passarono gli anni, quelli dell’esilio forzato da Torino, ma questa rimase sempre la mia città.

L’anno scorso, quando ero nel carcere delle Molinette, sono stato ricoverato per un paio di settimane presso il “repartino” dell’Ospedale Maggiore e dalla finestra della mia cella ospedaliera cercavo di vedere tutto ciò che il limitato campo visivo, delineato da una fitta rete di protezione, mi concedeva. Fortunatamente ero capitato in una “stanza” che si affaccia sulla zona collinare che, allunandosi sulla riva destra del fiume Po, crea una linea di confine fra la Torino operaia e la Torino ricca, nobile! Una collina lunga e sinuosa, che accompagna il Po per un lungo tratto, sino a vederlo poi allontanare verso la pianura padana.

A volte io e il mio caro amico Paolo ci beavamo di tranquille gite sulla collina, insieme si sognava da ricchi tra i ricchi, quei pochi eletti che risiedono tra pinete secolari e parchi austeri o giardini tropicali protetti da grandi serre, con stagni enormi dove galleggiano da sempre leggere ninfee che si aprono su grandi zattere verdi, la veste candida come quella di spose all’altare. Percorrevamo tutte le strade con la macchina, lentamente, ascoltando musiche nostalgiche e ci beavamo dei raffinati palazzotti fine ‘800 o delle ricercate costruzioni barocche o della complicata leggerezza del liberty e del regale vittoriano. Vi erano anche modernissime ville: progetti ambiziosi di architetti dotati davvero, tanto da poter incastonare un pezzo avveniristico in una natura secolare, senza stonare nemmeno una sola nota di quella sinfonia di stili. Si andava su e giù per corso Gabetti e c’inerpicavamo per le strade laterali, un continuo di grandi recinti oltre i quali si intravedevano giardini e costruzioni, e si fantasticava di progetti importanti… La tappa di uscita da quel labirinto incantato era rappresentata da un elegante caffè, in largo Tabacchi, dove si affacciano le signorili palazzine della borghesia collinare con balconi dalle bianche balaustre in marmo e dov’era anche la sede storica del Toro, squadra di calcio che terminò la sua epopea di successi sportivi negli anni ’50 sulla collina di Superga, contro la quale, all’ombra dell’omonima basilica, si schiantò l’aereo che trasportava l’intera gloriosa squadra. Qui ci fermavamo e gustavamo un frappé di caffè, la specialità di quel bar; lì c’erano i ragazzi-bene, i figli di papà! Ci guardavano con sospetto, soprattutto quando i nostri sguardi un po’ spaesati s’incrociavano con i loro. Fuori v’erano auto lussuose e moto ultimo modello… cose irraggiungibili in quel momento per noi che per vivere facevamo i camionisti. Attraversando il Po e rientrando nella nostra parte di città ci sentivamo meglio, non più fuori posto, e allora ci si dirigeva al “nostro” bar, dai nostri amici, e una buona birra fresca dava allegria alle risate spensierate di quel tempo ormai lontano.

Questa città è stata importante per me e lo sarà ancora. Sono stanco di girare e credo che Torino, dopo l’espiazione della pena, tornerà a essere probabilmente il mio luogo, dove poter invecchiare.

Poter invecchiare…questo è il pensiero ricorrente, la soluzione finale a tante difficoltà… il riposo del guerriero: io, che sono reduce da una guerra perduta, vincitore e vinto di tante, troppe battaglie. Adesso che sono adulto, il mio confine è ancora delineato da un cancello, non più arrugginito bensì oliato, verniciato a nuovo, automatico, e più d’uno. Per uscire dal carcere bisogna attraversarne di cancelli con le sbarre alte sino al soffitto! Sbarre d’acciaio forgiato nel dolore, nella disperazione, nella solitudine e nell’umiliazione. Il mio presente è a Roma, più precisamente a Rebibbia, dove, su terra strappata alla palude, sorge il complesso penitenziario più grande dell’area capitolina. Qui sto espiando la mia condanna, tanti, troppi anni da dare, in cambio degli errori commessi quand’ero più giovane. Ho lottato, ho pianto, ho gridato la mia rabbia… sono riuscito a sbagliare ancora e poi ancora durante la mia vita. I problemi della mia famiglia si riversarono improvvisamente addosso a me sin dal 1977 e, ancor oggi, sto pagando sulla mia pelle, e su quella di mia moglie e mio figlio, gli errori di valutazione commessi in quell’epoca per salvare il buon nome di mia madre dall’onta dei protesti! Regole di vita apprese nella rigidità educativa che mia nonna mi aveva insegnato… Ah, i legami affettivi della mia fanciullezza! Mia nonna…mia madre… E io? Io provai a rimediare con le mie forze ai guai che stavano sommergendo mia madre ma non ci riuscii o almeno non in maniera legale. Cercai aiuti che mi furono negati, prima dalle banche e poi anche da parenti e amici… di colpo c’era il vuoto intorno a me e a lei che era vittima di se stessa, soprattutto del suo egoismo.

Io ero sposato da poco. Ricordo la notte in cui il suono del campanello sorprese nel sonno me e mia moglie Graziella. Ci guardammo dopo aver acceso la lampada sul comodino: chi poteva essere? Era mia madre che, piangendo convulsamente, mi chiese di farla entrare. Quando sedette sul sofà nel salotto, iniziò a biascicare parole sconnesse: rovina… suicidio…Carlo non ne sa nulla, se lo sa mi ammazza ecc. ecc. Fu una doccia fredda che cancellò la sonnolenza, mia moglie andò a preparare il caffé, io tentavo di consolare quella donna che mi faceva pena… la abbracciavo, le asciugavo le lacrime con le mie mani, la rassicuravo che avremmo trovato una soluzione. La soluzione giusta non la trovai, i debiti che aveva accumulato con diverse finanziarie e con usurai ammontavano a una cifra da capogiro. Interessi spaventosi calcolati sui rinnovi di pagamento, le minacce dei creditori… un inferno! I miei risparmi non servirono a nulla, le banche mi negarono qualsiasi aiuto. La soluzione mi venne proposta da quegli stessi usurai. Di quella soluzione oggi sto pagando le conseguenze!

E così naufragò anche il mio matrimonio con Graziella, il mio primo vero grande amore e come tale non si scorda mai!

Com’era bella quella biondina abbronzata e in minigonna, seduta al tavolino del bar che ogni pomeriggio, durante le mie ferie estive, ero solito frequentare per fare una partita a biliardo con i miei amici liguri in quel d’Imperia. Era agosto, pochi giorni ancora di dolce far niente e poi sarei tornato a Torino, al mio lavoro di autotrasportatore. Il mio sguardo quel pomeriggio non poteva staccarsi dall’esile figura di quell’affascinante bionda seduta al bar, il mio bar… e subito marcai il territorio. Avevo 19 anni e un fisico prestante, vestivo alla moda, avevo una bella spider Alfa Romeo e tanta, tanta voglia di vivere la mia gioventù. Mi avvicinai al bancone del bar e ordinai al barista, che conoscevo da anni, un tè freddo con tantissimo limone e ghiaccio, nel frattempo guardai negli occhi quella ragazza dalla pelle ambrata e alzando il bicchiere verso di lei le feci un cenno: vuoi? Per tutta risposta spostò l’imbarazzatissimo sguardo verso un’amica che sedeva accanto a lei, lo fece in maniera quasi stizzita. Io mi appoggiai al flipper e, impertinente, cercavo i suoi occhi con i miei. La stupenda bambolina all’improvviso s’alzò, mi passò vicino frettolosamente, un’ondata di profumo di olio solare riempì il mio olfatto, si avvicinò al Juke box. Mi avvicinai anch’io: «Per favore puoi mettere “E tu” di Baglioni?» Senza neppure voltarsi rispose seccata con un sonoro no! Iniziò a diffondersi la musica di una canzone molto in voga nelle discoteche, era il 1974 e “Sugar baby love” faceva danzare migliaia di giovani. Subito dopo udii Baglioni, il ritornello di “ E tu “ vibrava nell’aria, sorridendo soddisfatto mi voltai verso di lei e mi resi conto che anche lei stava sorridendo mettendo così in risalto le sue stupende labbra, tutte da baciare. Passarono esattamente 7 mesi da quel momento a quando la baciai sull’altare a cerimonia avvenuta, era il 31 Marzo 1975 ed era il lunedì di Pasquetta. La gita fuori porta fu la nostra luna di miele, il pic-nic fu davvero abbondante e saporito.

La felicità ci accompagnò per qualche anno poi fu via via scemò sotto il soffio della bufera economica che mi costrinse a far fronte ai debiti di mia madre, una madre troppo egoista per accorgersi che il mio sacrificio dettava la fine di tutte le mie relazioni: sociale, lavorativa e, non ultima, quella matrimoniale.

Nel 1980 venni arrestato per la prima volta, ero accusato di varie truffe, falso e sostituzione di persona: reati commessi nel vano tentativo di salvare la nave con tutto l’equipaggio, ma non riuscii a salvare nemmeno me stesso. L’impatto con il carcere fu tremendo. Dal portone d’ingresso mi accompagnarono ammanettato attraverso un lungo corridoio illuminato fiocamente da gialle luci fissate a un soffitto a volta, ricoperto da macchie di umidità e dalla muffa. Contai sette enormi cancelli, che venivano aperti da chiavi enormi, cigolavano e sbattevano dopo il mio passaggio come a volermi sigillare lì dentro. Ero spaventato e solo! Le Nuove di Torino era, al contrario del nome, una vecchia struttura in mattoni rossi ormai scuriti dal tempo, le inferriate arrugginite alle finestre annunciavano la prigione già dall’esterno. La cella dove mi depositarono era spoglia: muri sporchi pieni di graffiti di disperazione, una vecchia branda le cui molle erano state tirate da legacci improvvisati con strisce strappate dalle lenzuola, nessun piano d’appoggio o stipetto, i pochi indumenti che mi ero portato dovetti appoggiarli su alcuni fogli di giornale, per terra! Non so descrivere la sensazione di profonda disperazione che provai in quegli attimi. So solo che dopo 5 mesi e mezzo uscii da quell’inferno arrabbiato, indurito e con nuove amicizie e nuove cognizioni di vita. Il bravo ragazzo, il lavoratore si era smarrito tra i muri sporchi della galera… un solo pensiero: meno male che nonna Nina non ha vissuto tanto da vedermi in carcere… Era morta nel 1978 e con lei era morta la mamma, restava mia madre!

Un altro dramma si stava affacciando alla finestra del nostro universo familiare. A 16 anni Geppo iniziò a fare uso di droghe. In verità, avevo cominciato da un po’ a vederlo strano, assente; avevo provato a parlare con lui, ma negava tutto, faceva l’offeso. Da quel momento feci attenzione ai suoi comportamenti e purtroppo avevo ragione: l’eroina aveva iniziato il suo viaggio nelle vene di mio fratello. Ne parlai con nostra madre, non voleva credermi e quando si convinse mi chiese di tacere con Carlo.

Io ero appena stato scarcerato dopo il mio primo arresto, per Carlo ero ufficialmente il delinquente! Non volli avallare la richiesta di mia madre, tacere non serviva e anche lui doveva guardare in faccia la realtà e assumersi le responsabilità del caso. Fu terribile quella riunione di famiglia che indissi nel pomeriggio di una domenica d’aprile, era il 1981, non potrò mai scordarlo. Per diversi anni ancora mio fratello continuò a far uso di eroina, il suo calvario coinvolse tutti e suo padre cominciò a morire dentro, aveva perso ogni voglia di combattere, di litigare. Ora guardava a me come a un appiglio, comprese i suoi errori e mi chiese perdono: lo compatii, lo abbracciai e insieme piangemmo lacrime di un solo dolore: Gian Paolo.

Venni poi arrestato altre volte, ma l’impatto non mi sorprese più, sapevo quello che avrei trovato, la paura aveva lasciato posto al fastidio, alla rabbia per esser di nuovo caduto. È una brutta abitudine quella che si fa all’entrare in carcere più d’una volta, noi diciamo che non ci si abitua mai, ma non è così, solo che scoccia ammetterlo!

Nel 1984, durante il mio terzo arresto, mi arrivò in carcere la notifica della separazione coniugale richiesta dalla mia consorte, stanca delle mie battaglie e delle continue visite e perquisizioni della nostra casa da parte della Polizia. Quando uscii trovai le mie poche cose in due valigie, le chiavi di casa che avevo con me non aprivano più quello che era il nostro nido d’amore. Mi pervase un’orrenda sensazione di freddo, anche se era ancora agosto… tutto si compiva in agosto: l’inizio e la fine! La salutai con i bagagli sul pianerottolo, avevamo entrambi le lacrime agli occhi, ma in lei vi era una forza a me sconosciuta, quella che ti fa vedere oltre!

Iniziai così a girare per l’Europa, diventai un girovago forzato, tutto pur di non cadere nella tentazione di andare da lei… Viaggio dopo viaggio, storia dopo storia, smisi di soffrire d’amore. Col tempo i miei rudimenti giovanili di navigatore a vela si perfezionarono e con la vendita del mio “Koala”, una barca a vela di 8 metri cabinata, con lo scafo di legno, realizzai la somma da anticipare per fare il salto di qualità. La barca me l’aveva data lo zio Pierino, marito della zia Rosa, quella di Imperia. Quando anni addietro ero stato da loro, insieme a mia nonna, avevo cominciato ad aiutarlo nella cura della barca. Ogni giorno, di mattina presto, ci recavamo alla “Foce”, una zona di Porto San Maurizio, dove c’è un porticciolo per i pescatori e un piccolo cantiere di rimessaggio e riparazione nautico. Respiravo a pieni polmoni quell’odore di alghe e di salmastro, avevo bisogno di cose nuove per dimenticare in fretta ciò che aveva determinato la partenza da Torino. La barca si chiamava Rosetta, in onore di mia zia, Pierino teneva molto sia a sua moglie che alla sua barca. Sotto coperta c’era un locale adibito a soggiorno e un tavolo per le carte nautiche, a prua la cabina da letto e una toilette, tutto minuscolo ma perfetto, la vernice trasparente faceva risaltare le striature e il colore dei legni nobili. Lavorandoci insieme allo zio me ne innamorai, la curavo, la pulivo, la smontavo e rimontavo, non rimanevano segreti per me in quello scafo. Finita l’opera di rimessaggio l’avevamo varata in mare, quanta emozione nel solcare le onde: la vela si gonfiava e la barca scivolava via leggera. Dopo qualche giorno lo zio mi aveva esortato a prenderne il controllo e paziente mi aveva insegnato a cazzare, lascare, strambare e innumerevoli altre parole dal fascino misterioso, a ognuna delle quali corrispondevano manovre e conseguenti comportamenti della barca. Un anno dopo ero entrato in possesso della Patente Nautica, ero orgoglioso, la nonna mi aveva acquistato un berretto da Capitano di Lungo Corso e un paio di mocassini nautici per celebrare la cosa!

Riuscii ad acquistare un gioiello: uno “sloop” di 18 metri circa, un vero veliero, col quale per qualche tempo, mi guadagnai il pane, proponendo il noleggio ai privati per viaggi charter a breve e media distanza, fino a quando decisi di affrontare il mio primo vero viaggio, verso i Caraibi e di lì sino alle coste atlantiche del Sudamerica.

Nel 1988 stabilii la mia permanenza in Spagna, a Malaga, e lì, ormeggiata la mia “Rainbow” — questo il nome della barca che mi aveva fatto compagnia per diverso tempo —, ricominciai a lavorare per una ditta di trasporti internazionali, un ritorno al mio primo amore: il camion! Appresi che Carlo era morto. Dopo un po’ di tempo passato su strade e autostrade europee, aprii un pub a Torremolinos, amena località della Costa del Sol; avviato il locale, trovai subito un compratore tedesco e con la somma realizzata mi trasferii a Barcellona, in terra catalana.

Lì conobbi una donna stupenda, il nostro incontro fu casuale, a una cena in casa di amici. A tavola capitammo seduti uno di fronte all’altro, ero colpito dai riflessi dei suoi lunghi capelli corvini e dagli occhi di un caldo color caffé… Era estate, la donna che stava di fronte a me indossava una camicetta a fiori, mi pareva fosse di seta perché il tessuto dalle spalle scivolava giù sino a rimanere quasi appeso al seno che si metteva in risalto sotto quella carezza. La osservavo e lei… arrossiva! Che meravigliosa emozione scaldava il mio cuore, non era solo effetto del vino tinto, era la passione che scaturiva da un vulcano che pensavo spento, mentre era solo assopito. Avevo avuto numerose avventure, la vita da “ pirata di mare “ favorisce certe relazioni, ma erano solo automatismi, gesti istintivi, senza coinvolgimenti sentimentali. Ora c’era qualcosa di nuovo, lo sentivo! Ogni tanto le domandavo qualcosa per udire il suono della sua voce così sensualmente profonda che mi faceva venire la pelle d’oca. Finalmente, dopo tanto tempo, riuscivo a ritrovare la voglia di corteggiare, di sedurre… E la conquistai. Nel tardo autunno del 1989 iniziammo la nostra storia sotto un solo tetto. Era tutto bellissimo, ogni cosa era un gioco, ogni gesto una seduzione nuova… eravamo inseparabili, diventammo animali notturni, vampiri di passione! Pilar, così si chiama, mi rese padre nell’ottobre del 1991. Toccavo il cielo con un dito, avevo 36 anni, mi sentivo forte e sognavo una vita serena per me e per mia moglie, poter dare tanto amore a questo nostro figlio, lo chiamammo Gino, il nome di quel papà che non avevo mai conosciuto e che ritrovai dentro di me diventando a mia volta padre.

Di mio padre so soltanto quello che mi raccontarono la nonna e mia madre. Si chiamava Luigi, ma per tutti era semplicemente Gino. Era un bravissimo meccanico motorista e faceva il collaudatore nel reparto corse dell’allora Fiat-Leone, che produceva prototipi: bolidi che gareggiavano in pista. Credo che la passione per le auto e le moto sportive e la prontezza di riflessi, unita a una guida veloce e fluida, siano l’eredità genetica ricevuta da lui. È morto a 27 anni, e mi detesto per non ricordare nulla di lui. La nonna mi raccontava che era uno scavezzacollo e che, quando tornava a casa dal lavoro, lo sentivano tutti i vicini: la sua auto ruggiva e le ruote stridevano sull’asfalto. Alla mia nascita, per la felicità si prese una bella sbronza insieme a mio nonno Cin, così lo chiamavano in famiglia, in realtà si chiamava come me: Giuseppe. Di papà avevo solo qualche foto in bianco e nero, ingiallita dagli anni, una lo ritraeva su una grossa moto: indossava una tuta da meccanico e portava un vistoso paio di occhiali da sole, nell’altra era su una spiaggia con i pantaloni arrotolati fino al ginocchio, abbracciato a mia madre. Assomigliava moltissimo a James Dean, l’attore hollywoodiano di Gioventù bruciata, aveva un vaporoso ciuffo biondo pettinato all’indietro… nonna diceva che sembrava pettinato con una fionda… io scoppiavo a ridere e ogni tanto le chiedevo di ripetermi queste cose. Da mio nonno Cin avevo ereditato la stazza e la passione per i camion, di lui ho dei flash di memoria o forse è solo una sensazione giacché morì solo un anno dopo mio padre. Mio papà Gino, mio nonno Cin, mia nonna Nina… i miei Totem! Con la nascita di mio figlio, ho fatto rinascere il mito di Gino Stralla, per me è tale!

La sorte, però, era in agguato, acquattata dietro l’angolo, aspettando solo un passo falso per presentarmi il conto. Mia madre nel giugno del ’92 venne colpita da un’ischemia cerebrale. Mi recai a Torino per vederla, dopo tanti anni era la prima volta che tornavo nella mia città. Mamma era ricoverata in ospedale, era stata intubata. Appena la vidi, dimenticai ogni astio, ogni pensiero negativo e la guardai in quel momento con i miei occhi di figlio… di bambino, con tenerezza: era lì, in quel giaciglio ospedaliero, stava dormendo, pallida e molto più magra di come l’avevo vista due anni prima, quando, in compagnia del mio fratellastro, era venuta in Spagna a chiedere l’ennesimo aiuto economico. Ora la rivedevo così debole e indifesa, con i capelli bianchi che per la prima volta coprivano la sua testa senza trucchi… senza tinta! Per venire a Torino, allarmato per quell’improvviso malore di mia mamma, avevo lasciato mio figlio di otto mesi e mia moglie a casa di mia suocera, a Barcellona. Sarebbe dovuta essere una visita di pochi giorni, non resistevo lontano dal mio bebè… Invece, mentre ero a casa con mio fratello, suonarono al campanello e, quando andai alla porta, aprii ai carabinieri che venivano per arrestarmi.

Mi resi conto solo nell’ufficio matricola del carcere che tutto il mio passato era tornato prepotentemente alla ribalta: mi venne notificato un mandato d’esecuzione per un totale di 29 anni di condanne ormai definitive, un cumulo spaventoso di sentenze emesse senza la mia presenza e inappellabili. Nella mia mente non c’era più spazio per altri pensieri, mio figlio era rimasto senza papà, per ragioni diverse dalle mie ma comunque senza padre. Mia moglie ricevette la drammatica notizia dai carabinieri: in uno stentato spagnolo, l’ufficiale le disse che ero stato arrestato, così, senza possibilità d’interloquire, solo, credo che mi udì urlare di stare tranquilla.

Dal mio arresto passarono 8 anni prima di poter rivedere la libertà, una libertà prestata tramite i permessi, ma nel frattempo il panorama familiare era cambiato. Gian Paolo si era sposato e separato, ora si prende cura di nostra madre, vive con lei che è rimasta paralizzata a causa di altri due ictus e indebolita da quattro infarti che la colpirono dopo la mia detenzione. Non parla nemmeno più da diversi anni e comunica solo con suoni gutturali, esprime le sue emozioni ridendo o piangendo e muove parzialmente un solo braccio e con quello fa gesti per indicare cosa vuole. Tocca a lui questo compito, il mio l’avevo già svolto, per lei e per lui… Ho pagato innumerevoli volte i suoi guai, ho tentato di farlo vivere accanto a me, ogni volta mi derubava e poi scompariva. Mi sobbarcai le spese di diverse comunità terapeutiche perché si disintossicasse, a niente servirono i miei sforzi. Oggi ne è uscito da solo, senza costrizioni, è la testa che si deve disintossicare, non il corpo… Gli voglio bene, non lo lascerò solo quando nostra madre non ci sarà più… è il piccolino di casa, gli resterò io!

Durante i primi permessi cercai di mettermi in comunicazione con mia moglie, seppi al telefono e da terze persone che Pilar aveva smesso di sperare e di aspettare! Nel gennaio del 2000 scappai, tornai in Spagna per tentare di ricucire uno strappo così lungo, così violento. Non fu facile, lei stava convivendo con un altro uomo, era un suo ex, quello che aveva lasciato quando conobbe me, mio figlio si era già abituato a un'altra figura paterna e il mio arrivo lo fece sprofondare nella confusione. Io ero troppo pieno di rabbia e ci misi un po’ di tempo per rendermi conto del male che stavo facendo all’unico figlio che ho. Decisi allora di non rompere l’armonia familiare in cui egli viveva.

Mi cercai un lavoro, non ebbi difficoltà a rimettermi alla guida di un TIR e iniziai così a lavorare e a guadagnare bene. Dopo circa sei mesi, nonostante fossi latitante, chiesi la residenza, mi recai alla Polizia e spiegai che ero scappato da un permesso e che avrei voluto essere arrestato per espiare la mia pena in territorio spagnolo; non fu possibile, ma non potevano nemmeno arrestarmi per conto dell’Italia, in quanto le mie condanne erano state pronunciate tutte in contumacia e la legge europea non prevede estradizione in questi casi. Mi diedero la residenza e la comunicarono alla Procura di Pisa, quella competente perché ero evaso dal carcere di Volterra.

Passarono così quattro anni, ci fu un tentativo di convivere di nuovo insieme a Pilar ma non eravamo più gli stessi e l’unico a soffrire davvero era Gino. Così lasciai perdere e decisi di tornare in Italia per finire questa pena detentiva e rientrare in possesso di tutti i requisiti per vivere legalmente la vita che mi resta ed essere a disposizione di mio figlio quando ne avrà bisogno.

Mancano pochi anni a riprendere la mia vita tra le mani e non voglio che mi scivoli via come sabbia tra le dita. Voglio dare un senso compiuto alla mia esistenza e voglio dividerla con qualcuno che possa apprezzare il buono che ho ancora da dare.

Il luogo dove trascorrerò il mio domani sarà dove il mio cuore continuerà a battere, là ci sarà la mia casa e quella sarà la mia identità, quella che mi accompagnerà verso la fine del mio percorso… I cancelli del destino si aprono e si chiudono al mio passaggio!

Share/Save/Bookmark
 

Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


Relizzazione tecnica: Emiliano Nieri
Progetto grafico: Enrico Calcagno, Daniele Funaro - AC&P - Aurelio Candido e Partners
Powered by Joomla!