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Rotta verso casa

Nat75

Tutto ebbe inizio, o fine, con una lunga dormita di 15 ore filate, dopo un fine settimana pieno di alti e bassi molto estenuanti. Ero veramente esausto. Così stanco al punto di perdere quel controllo di me stesso del quale ero sempre stato molto fiero. Il sonno fu così profondo e rilassante che finii col fare sogni di ogni tipo, mescolando al presente il passato e il futuro, incurante dell’ordine naturale degli eventi: sognai di rivivere una giornata in compagnia dei miei cari, sognai che la mia vita non era in fondo poi così diversa da quella degli altri, sognai che ero tranquillo, sereno, ma soprattutto con ancora un’infinità di tempo davanti per porre rimedio ai miei errori, per discolparmi con chi avevo offeso, ma soprattutto per cominciare a scrivere i migliori capitoli della mia vita.
Ma in quei giorni, non tutte le mie notti furono costellate da dolci ricordi e risvegli sereni. Di tanto in tanto, anche se di rado, capitò pure di avere qualche risveglio molto agitato nel cuore della notte dovuto a un sogno o piuttosto a un incubo ricorrente formato da desideri, paure, ricordi e nostalgie lasciate libere di intrecciarsi a loro piacimento dal mio subconscio, ormai totalmente incontrollato, dando vita così a sequenze degne di un film, con inseguimenti notturni, autostrade bloccate, poliziotti appostati, manette e interrogatori a non finire. Tutti con la stessa conclusione: il carcere.


Mi svegliò il telefono quella mattina, era lo Special, il mio socio. Avevo un gran mal di testa, dovuto sicuramente al troppo alcol bevuto la sera prima in occasione dei festeggiamenti del suo compleanno in discoteca. All’indomani avrei dovuto prendere l’aereo per fare ritorno in Italia, il mio socio e gli altri nostri compagni sarebbero partiti in serata con le loro auto. Per prendere gli ultimi accordi prima della partenza ci demmo appuntamento nel ristorante dove ero solito pranzare.
Non eravamo solo un gruppo di giovani che si riunivano per fare soldi, almeno per quello che mi riguardava, i soldi erano solo la conseguenza di quello che facevamo. A me interessava poter viaggiare ogni volta fosse necessario, sentirmi libero, vivo e molto, molto intraprendente.
Sentimentalmente la mia vita era tutto un casino. Mia moglie, dopo aver scoperto che mentre si trovava con i nostri figli nella Repubblica Dominicana io mi ero trasferito a casa di una tipa, mi scatenò un vero inferno. L’errore fatale fu quello di farmi vedere con la tipa un po’ dappertutto, dimenticandomi della riservatezza che in quelle situazioni sempre mi aveva contraddistinto. Anche perché in fondo di quella lì, non me ne fregava un granché. Così, dopo un interminabile numero di suppliche e preghiere, mi arresi all’evidenza dei fatti e nonostante la mia forte volontà di riavvicinarmi a lei, decisi di aspettare che le acque si calmassero, evitando di essere troppo insistente in un momento in cui le cose brutte sovrastavano in numero e in intensità quanto di buono fino ad allora ci aveva uniti. Probabilmente una parte di me era convinta che in qualche modo tutto potesse essere recuperato, anche perché ci trovavamo a fronteggiare il nostro primo vero problema di coppia.
Prima di alzarmi quella mattina, rimasi come mio solito per qualche minuto a fissare il soffitto pensando. Ripensavo a me, ai miei figli, a mia moglie, con la quale avevo parlato la sera prima mentre cenavo, anche se il raffinato e delicato profumo, ancora molto presente sul cuscino al mio fianco, distraeva la mia attenzione confondendosi con i ricordi e rendendo il tutto molto difficile.
Pranzando con il mio socio decisi di fare il viaggio di ritorno in auto anziché in aereo. La cosa lo turbò parecchio, anche perché a lui non piaceva molto doversi spostare in aereo, ma io avevo voglia di rilassarmi e analizzare un po’ di cose che mi procuravano una certa ansietà, e già che era di strada approfittare per fermarmi a mangiare in un ristorantino favoloso vicino a Perpignan (Francia), nel quale ero solito cenare quando ne avevo occasione. Dal momento che sarebbe stato stupido e pericoloso essere entrambi nello stesso posto in cui si sarebbero svolti i fatti, lo convinsi che quella era la cosa migliore da fare. Così, rassegnato, alla fine non gli restò che arrendersi.


Quando qualcosa mi angoscia o mi preoccupa, mi piace prendermi tempo per rilassarmi e pensare, e non conosco miglior metodo che quello di farmi un bel viaggio di millecinquecento, duemila chilometri per riordinare le idee. L’aereo va bene quando hai fretta e le idee chiare; quando sei confuso, è meglio prendersi tempo e fermarsi a godersi gli scenari che la vita ci offre.


Io e Spike ci conoscevamo da alcuni anni, lui era cugino di un tipo che aveva provato a darmi una fregatura e, avendolo a cuore, prese le sue parti mettendo come garanzia per il suo debito un suo negozio di abbigliamento e, cosa più importante, la sua parola, che rispettò, guadagnandosi così la mia stima. Da allora, di tanto in tanto l’uno ricorreva all’altro ogni qualvolta ce ne fosse bisogno. Lui era quello che si occupava di organizzare gli spostamenti della merce da un paese all’altro, utilizzava alcuni suoi amici: Fabrizio, Marco, Luca e la sua ragazza Karen, tutti ragazzi che con il tempo avevo imparato ad apprezzare anch’io.
Dopo aver discusso con loro dei cambiamenti, decisi di andare a prendere le mie cose in hotel.
Io e Fabrizio viaggiavamo con la nostra auto davanti al gruppo un po’ per i fatti nostri, liberi da vincoli, Spike si sarebbe mantenuto a una distanza più o meno di 5 chilometri dall’auto guidata da Luca, che viaggiando con la sua ragazza avrebbe trasportato la merce. Fermandoci a fare rifornimento in un autogrill, comprai qualche birra, un paio di CD e una strana maschera di ceramica, di quelle che mia moglie tanto adorava, dopodiché feci qualche telefonata e ripartimmo.


Ancora adesso a distanza di anni, mi è sufficiente ripensare a quei momenti per riassaporare quella sensazione indescrivibile di libertà. Sfrecciare a 200 chilometri su una autostrada, vedendo le città apparire all’orizzonte per poi scomparire nello specchietto retrovisore in un magico susseguirsi di immagini, luci, odori e colori di ogni tipo, è un po’ come saltare da una cartolina all’altra. È sentirsi vivi.


Parlando con Fabrizio ripensammo alla serata in discoteca trascorsa la notte prima, in occasione del compleanno dello Special. A più riprese mi domandò di Iris, una affascinante venezuelana alla quale da un po’ di tempo stavo dietro e che, a detta di tutti, ormai avevo conquistato. Avendomi visto con lei durante tutto il tempo trascorso nel locale e a un certo punto non vedendo più nessuno dei due, aveva concluso che ce ne fossimo andati felicemente insieme, ma io mi limitai a confermagli che le premesse perché nascesse qualcosa c’erano tutte, ma che a un certo punto lei aveva rovinato tutto facendo un sacco di domande un po’ troppo dirette, e facendo così sparire in me qualsiasi interesse nei suoi confronti. Fabrizio, come suo solito, mi fece mille altre domande riguardo me e Iris, ma nonostante io considerassi la vita come un continuo susseguirsi di sfide, non cercavo il plauso degli altri per i miei successi. Considero i successi, così come le sconfitte, qualcosa di così intimo, da dover essere contenuto e goduto in una esplosione di emozioni interne, simili a orgasmi, a cui solo noi possiamo attingere ogni qualvolta ce ne sia bisogno. Ripensare alla sera prima mi provocò una certa soddisfazione, perché giusto quando avevo deciso di chiudere con il capitolo Iris, questa era riuscita a sorprendermi al punto da risvegliarsi nel mio letto.
Preso dal paesaggio e dalla musica mi lasciai trasportare diventando un po’ nostalgico e finendo col pensare ai miei figli che, pur sentendoli tutti i giorni per telefono, mi mancavano sempre di più. Da giorni occupavano tutti i miei pensieri… e pian piano mi convinsi che al mio arrivo a Roma avrei parlato con il socio per dirgli di incaricarsi lui tanto del lavoro come dei ragazzi, cercando di fargli capire le ragioni che mi avevano spinto a decidere di chiamarmi fuori dai giochi. Sapevo bene che non sarebbe stato facile farglielo accettare, ma ormai avevo deciso, dopodiché avrei preso il primo volo per la Repubblica Domenicana per andare dai miei. Avevo aspettato anche troppo.
A Perpignan ci fermammo a mangiare vicino al mare e, visti l’ora e il sonno, decisi che ci saremmo fermati a dormire lì e che all’indomani dopo un’abbondante colazione avremmo ripreso il nostro viaggio. Passai la notte a pensare e ripensare a mille modi per recuperare quello che fino a pochi giorni prima mi stavo abituando all’idea di considerare concluso, e dopo essermi fatto una bella doccia, chiamai casa e parlai con mia figlia fino ad addormentarmi.
All’indomani, mentre squillava il telefono, il sole mi scaldò tanto da svegliarmi avvolto in una dolce sensazione di piacere. Dal balcone dell’hotel si vedevano delle barche ormeggiate e varie persone sedute nelle terrazze dei tanti bar e ristoranti che costeggiano il porto. Mentre io respiravo intensamente di quell’aria nuova, una, due, tre volte, qualche barca lentamente si perdeva all’orizzonte. Quella mattina avevo tutto chiaro, il tempo dei giochi era giunto al suo termine, finalmente ero cosciente di aver preso la decisione giusta.
Finito di pranzare radunai tutti, e dopo un po’ ripartimmo per il nostro viaggio.
Come sempre la prendemmo comoda, la notte mi aveva completamente rigenerato. Prossima tappa: Italia. Strada facendo, più volte mi venne voglia di prendere il telefono e di dire a mia moglie che in tre giorni al massimo sarei andato da loro, ma era troppo presto per telefonarle e poi, conoscendola, era molto meglio farle una sorpresa e non correre il rischio che si chiudesse a riccio preparando la sua difesa. In serata, quando finalmente entrammo in Italia, un brivido freddo percorse il mio corpo, un brivido che conoscevo bene e che non si era mai manifestato inutilmente. Rapidamente guardai verso il cielo e mi accorsi che delle stelle che brillavano fino a un’ora prima in territorio francese non c’era più traccia, erano sparite! E quelle due coincidenze nello stesso momento non mi erano piaciute affatto.


Non mi ritengo superstizioso ma credo che l’istinto, come il sesto senso, sia una di quelle componenti che ci tengono in stato di allerta e che da millenni ci portano sempre a cercare una via d’uscita ogni volta che ci sentiamo minacciati. I miei antenati in Sud America guardavano il cielo alla ricerca di qualche segno premonitore e, in qualche maniera, anch’io continuo a farlo. Può darsi che sia una superstizione, del resto, pensandoci bene, anche tutte le religioni possono essere considerate tali.


Sentivo che qualcosa non andava. Da qualche parte stava per succedere o era già successo qualcosa di male a me o a qualcuno a me molto vicino, ma cosa? Dissi a Fabrizio di fermarsi al primo autogrill, dove feci un rapido giro di chiamate senza trovare l’indizio mancante per capire come comportarmi, subito dopo ci rimettemmo in viaggio. Poco dopo aver ripreso il nostro viaggio, mi chiamò mia madre, parlammo del più e del meno, e dopo un po’ mi chiese, visto che secondo lei dovevo trovarmi nelle vicinanze di Milano, di passare a prendere mio zio che doveva tornare a Roma. Le dissi di no, che avevo da fare altre cose, ma lei continuò a insistere, così le ricordai che pur trovandomi al nord non necessariamente dovevo essere nelle vicinanze di Milano. Poco dopo aver concluso la telefonata con lei, mi chiamò mio zio per convincermi a sua volta a passare a prenderlo, e fu a quel punto che cominciai a capire. Milano mi chiamava. Eccolo il mio indizio! Spiegai a Fabrizio l’inquietante legame che mi univa a quella città, quelle che per alcuni erano semplici coincidenze per me erano fatti concreti.

Per ben tre tre volte che mi ero recato a Milano era accaduto che all’indomani puntualmente la polizia era andata a cercarmi a casa mia, a Roma, per arrestarmi. L'ultima volta, dopo avermi sorvegliato e pedinato per mesi e mesi, era arrivata all'alba, ma sfortunatamente per lei solo un paio d'ore prima io me n'ero andato via, dopo aver preso il necessario per trascorrere un paio di giorni a Milano. Fu in quell’occasione che mi convinsi del significato particolare che quella città aveva per me: mentre preparavo i bagagli, mia moglie mi disse che avrebbe approfittato di quei miei giorni d’assenza per andare un po’ da sua sorella (che abitava a non più di 2 km.) con i bambini, e io commentai: “Ogni volta che vado a Milano mi vengono a cercare per arrestarmi. Stai a vedere che succede anche questa volta! Se dovesse capitare, non ti preoccupare, ti contatto tramite mamma”.
Mai parole risultarono più veritiere.

Arrivati a quel punto avrei voluto seguire il mio istinto, prendere per Milano e rimanerci nascosto fino a quando quello che doveva succedere non fosse accaduto, o fino a rendermi conto di essere diventato un povero paranoico e di aver perso il mio cuor di leone. Ma non potevo farlo: il giorno dopo a Roma avevo un appuntamento importante e non potevo di certo mandarci il socio da solo. Così, nonostante io non lo volessi affatto, andammo avanti.
Dopo intensi attimi di riflessioni, contattai Spike al suo cellulare e ci demmo appuntamento allo svincolo poco prima dell’uscita per Bologna. Evitai di innervosirlo raccontandogli quelle che potevano sembrare solo paranoie, ci salutammo e mentre loro andavano verso Rimini, noi ci dirigemmo verso la capitale.
Ero sempre più nervoso, ma dovevo andare avanti. Durante il viaggio ripensai alla conversazione telefonica avuta poco prima con mia madre: la sua insistenza affinché io andassi a Milano la trovai veramente molto strana da parte sua; mi ripromisi ancora una volta che, se la scampavo anche quella volta, da lì a settantadue ore avrei preso l’aereo e me ne sarei andato a recuperare il rapporto con la mia famiglia.
Alla radio iniziava una canzone a me molto cara, Nel giardino dei miei amori, e immediatamente mi venne da ripensare alla mia vita incasinata. L’avventura e le emozioni mi erano sempre piaciute, ma da tempo mi sentivo stanco dentro e parecchio a disagio, avere la mia famiglia vicino mi faceva sentire una persona migliore e mi aiutava tantissimo a scaricare lo stress accumulato andando in giro per il mondo a combinarne di tutti i colori, anche se la cosa comportava inevitabilmente che ad accumularlo fosse mia moglie, la quale ormai stava allontanandosi da me, dando per morta ogni speranza in un mio possibile cambiamento e arrendendosi all’idea che io non avrei abbandonato mai la vita che avevo scelto e che lei all’infinito mi aveva chiesto di lasciare.

All’inizio tutto assomigliava a un gioco, come noto una cosa tira l’altra e così da una parola ne nacquero altre e senza neanche accorgermene mi ritrovai a giocare a un gioco da adulti, guadagnandomi rapidamente la fiducia e la stima degli amici di altri amici, sparsi un po’ per il mondo, fino ad arrivare dove le parole contavano quanto i fatti, se non di più. Arrivato a quel punto,  uscirne non fu più così facile. Spesso ho avuto la tentazione di accontentare mia moglie e lasciare il business, anche perché nel frattempo capitava che qualche compagno venisse arrestato per lunghi anni e in quei momenti riflettevo su quanto stavo mettendo a repentaglio, mi rendevo conto che non si trattava più di un gioco. Non lo era mai stato. Se mi fosse successo qualcosa avrei messo la mia famiglia in una situazione molto spiacevole, e proprio in quei momenti in cui mi assalivano i dubbi, mi vestivo di un falso materialismo che non mi apparteneva, per minimizzare persino un mio possibile arresto, dietro la convinzione che l’agiatezza della mia famiglia valesse anche quello. Ma nonostante cominciasse a manifestarsi in me una certa volontà di cambiamento, c’era sempre qualcosa in piedi da qualche parte e io in qualche modo vi ero sempre in mezzo, o direttamente o indirettamente, comunque sempre nel mezzo.
In una occasione in particolare ci avevo provato veramente. Per allontanarmi da tutto e da tutti avevo accettato - non senza un forte confronto con il mio io più ignorante e malavitoso, il quale m’insultava dandomi del vigliacco per la mia scelta di comodo - di andare in Sardegna con mio suocero che da svariati anni faceva lo chef in un villaggio turistico, dove mi aveva trovato lavoro. Era tutto pronto, avevo fatto persino la tessera sanitaria e il libretto di lavoro nuovo di zecca, ma proprio in quel periodo mi si era presentata l’occasione di sdebitarmi con un amico che in passato mi aveva coperto le spalle e che aveva suo fratello in mezzo a un gran casino, e io non me la sentii proprio di tirarmi indietro, così decisi di darmi da fare per tirarlo fuori dai guai, avevo troppa stima e rispetto per il mio amico, e io, nonostante oggi mi renda conto che è assurdo, stupido e crudele dirlo, potevo tradire le aspettative di mia moglie e della mia famiglia, ma non quella di un amico che stimavo e che a sua volta mi stimava, e fu proprio in quella occasione che conobbi il mio socio, lo Special. Era stato inviato in Italia proprio dal mio amico come suo rappresentante affinché tutto filasse liscio, una volta sistemate le cose aveva deciso di rimanere e con il tempo eravamo diventati grandissimi amici.

Se si ha una famiglia, amarla non sempre è sufficiente, probabilmente quando si vuol vivere sconsideratamente, è assai probabile che avere una famiglia non sia proprio una buona idea. Forse quello che dovevo fare era essere un po’ più onesto e non crearmela proprio, condannandomi così a godere delle attenzioni di una donna oggi di un’altra domani, oggi in Italia domani in Spagna, Francia o Sud America, chissà? Ma è risaputo che anche i cattivi possono amare qualcuno, e allo stesso tempo essere amati.

Le parole di quella canzone: Nel giardino dei miei amori... tante carezze piene di tenerezza... marcite lasciandomi un’amarezza…mi ronzavano ancora per la testa, così guardai l’ora, accesi il mio cellulare privato e chiamai casa. I miei figli erano a casa dei loro cugini e mi ritrovai a parlare con mia moglie, siccome temevo le sue rimostranze, cercai di chiudere la conversazione, ma mi resi conto che il suo tono era diverso dal solito, più rilassato e disponibile; conoscendomi si era accorta subito che la mia voce non era quella di sempre: vitale, energica, all'apparenza spensierata al punto da darle spesso sui nervi. Mi chiese se c’era qualcosa che non andava, mi disse che mi sentiva strano e diverso e io le risposi solo che avevo una gran voglia di essere lì con loro, lontano da tutti e da tutto. Lei nuovamente tornò a  chiedermi per l’ennesima volta che cosa mi stesse succedendo, in quel momento non era più la donna fredda e distaccata che si era imposta di essere ultimamente; per un momento mi ritrovai nel passato, mi sentii di nuovo importante nella sua vita e, lusingato dal sentirmi tanto compreso, chiusi il telefono sussurrandole qualcosa. Dopo aver abbassato il finestrino lo gettai fuori dall’auto.
Due ore dopo squillò il telefono. A chiamarmi era uno dei ragazzi nell’altra macchina, trovai strano che non fosse Spike a chiamarmi, che era il diretto responsabile, bensì Luca che, nonostante la loro intima amicizia, non aveva tuttavia alcun titolo per farlo. Mi disse che Spike si trovava molto indaffarato e mi fece capire chiaramente, in maniera criptata, che si era presentato un grosso problema che richiedeva la mia presenza urgentemente sul posto. Immaginai subito che il problema doveva essere legato alla merce che avevano trasportato, così gli dissi di restarsene tutti in casa fino al mio arrivo. Guidando a grandi velocità diretti verso Rimini, Fabrizio mi suggerì che forse quella sensazione di pericolo imminente da me provata poco prima potesse essere legata a quella complicazione, e niente di più, ma non riuscì a convincermi del tutto. Durante il viaggio più volte ripensai a quella strana telefonata. A infastidirmi era il fatto che a telefonarmi non fosse stato Spike, ma Luca. Quando finalmente mancava poco al nostro arrivo, nelle vicinanze del casello autostradale di Forlì, in lontananza vidi una gran fila di auto ferme e un’infinità di luci delle forze dell’ordine, che illuminavano la notte, pensai a un brutto incidente, ma a mano a mano che ci avvicinavamo mi rendevo conto che non c’era stato nessun incidente e vidi che nel mezzo dell’autostrada, parcheggiati di traverso, c’erano due autobus della polizia e altre automobili delle forze dell’ordine. La cosa mi puzzò e senza neanche accorgermene, approfittando del finestrino aperto, tolsi rapidamente la scheda telefonica al cellulare che usavo esclusivamente per lavoro, la spezzai e la buttai fuori. Venti secondi dopo, mentre le auto davanti continuavano a rallentare fino a fermare la circolazione intera, dalle automobili che si fermarono intorno a noi uscirono pistole in mano a sei o sette persone. Erano poliziotti che, dopo averci buttato fuori dall’auto e gettati a terra, ci bombardarono per degli interminabili secondi di domande che in quel momento non riuscivo a sentire, perché la mia mente era andata ben oltre l’arresto che si stava svolgendo; con la faccia a terra e le mani ammanettate dietro la schiena in mezzo alla autostrada, il mio cervello aveva già elaborato cos’era accaduto: avevano arrestato tutti e Luca, l’amico di infanzia di Spyke, aveva ceduto e mi aveva telefonato per farmi andare da quelle parti. Nello stesso momento in cui mi arrestavano, dopo aver realizzato come ci avevano beccati, il mio pensiero andò alla mia famiglia, vidi sgretolarsi la possibilità di ricongiungermi ai miei cari per sistemare le cose e, conoscendo bene la mia posizione, mi immaginai in galera con una condanna da scontare di almeno dieci anni nel migliore dei casi. Ormai tutto era finito! 
Poco dopo mi ritrovai in una stazione di polizia con tutto il resto del gruppo, ognuno in una stanza diversa. Mi portarono dall’ispettore capo dell’operazione, il quale, leggendo sul monitor dinnanzi a lui, mi ricordò che, essendo io già latitante per altro analogo reato, con questa nuova condanna nel migliore dei casi avrei trascorso dentro come minimo quindici anni, a meno che io non facessi o dicessi qualcosa che gli permettesse di aiutarmi. L’unica cosa che gli dissi dopo tutte le sue argomentazioni fu solamente di fare la sua parte e di lasciarmi fare la mia, tutto ciò che volevo a quel punto era nominare il mio avvocato e andarmene a dormire.
Mi tennero tre o quattro ore ammanettato a un termosifone, poi finalmente mi portarono alla Casa Circondariale di Forlì. Ero così deluso e arreso che non provavo niente, dentro ero totalmente vuoto, e rilassato allo stesso tempo. Ormai non avevo più motivi per essere nervoso, non mi dovevo più guardare le spalle da nessuno, né tanto meno dovevo continuare a usare documenti falsi per nascondere la mia identità, finalmente sarei potuto tornare me stesso. L’unica cosa che volevo era andarmene a dormire almeno per ventiquattr'ore di fila, poi, quando sarebbe arrivato l’avvocato, avrei visto il da farsi.
Al mio arrivo in carcere mi tennero per un’altra ora fermo ad aspettare, dovevano prendermi le impronte digitali e registrarmi: foto, impronte, visite mediche etc., poi finalmente mi mandarono in una cella di isolamento con le lenzuola pulite, un cuscino e una coperta. La cella era molto piccola ma a me interessava solo il letto e il bagno. Feci il letto in fretta e furia e mi ci buttai sopra. Ancora adesso, in tutti questi anni di galera, non ricordo una dormita più intensa e migliore di quella, finalmente potevo abbassare la guardia e mi potevo rilassare completamente, incurante dei rumori provenienti dall’esterno. Mi addormentai rapidamente mentre gli altri detenuti cominciavano la giornata, e sognai, sognai che non era vero, che tutto ciò non era mai accaduto e che la mia vita di ieri era ancora lì ad aspettarmi, pronta per essere recuperata...

Ricordando quei tempi, una parte di me ne rimpiange il fascino, l’intensità e quella sensazione palpabile di vita vissuta con spensieratezza nell’azzardo, a cavallo di un’emozione sempre giovane e selvaggia, minuto per minuto; ma allo stesso tempo mi rendo conto che si è trattato di un’imperdonabile perdita di tempo, di una parte di vita e di affetti che non potranno mai essere recuperati.
Ciò nonostante credo fermamente che un uomo abbia il diritto di sbagliare, pagare, riconoscere i propri errori e ricominciare. Perché la vita non è un errore, ma un’opportunità!


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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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