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In quel preciso momento…
Alfredo G

Adesso sono sicuro: l’amore non ha barriere né confini; né muri, né cancelli, né sbarre e neanche la mancanza dei colori possono stroncare questo sentimento. Come sarebbe l’uomo senza amore? Sarebbe come il mare senza sale, come il cielo senza stelle, come il sole senza la sua luce. E la luna, come farebbe la luna la sua parte senza il buio? Le sue forme e fasi non potrebbero risaltare e non darebbero vita ai sogni. Cosa sarebbe un uomo senza la sua famiglia? Una nave senza l’ancora, andrebbe subito alla deriva… Ecco, è proprio da qui che inizio, dalla mia ancora: l’amore per mia moglie e per i miei bambini.
Fu quel momento, un momento rivelatore, che mi fece attraccare a questo porto di passaggio…..


Sembrava un giorno come gli altri, ma mi sbagliavo. Ero lì sulla soglia di casa, alle prime luci dell’alba, pronto...
Ti dico di prepararmi le valigie per andare a costituirmi, te lo dico guardandoti dritta negli occhi con un senso di sfida, come per provocarti, i tuoi occhi però si abbassano con indifferenza. La tua determinazione nell’accogliere la mia richiesta aumenta in me la rabbia, cerco di nascondere il mio dolore chiedendoti di fare in fretta, ma tu, senza nemmeno guardarmi mentre prepari le valigie, come l’innesco di una bomba esplodi: «Con quell’aria spavalda credi di volermi fare un dispetto? Ma non sai che andandotene mi renderai la vita più semplice, mi donerai un po’ di pace! È stato un inferno l’ultimo periodo con te! Tu credi che ciò che stai per fare possa cancellare in un attimo tutto il male che hai fatto a me e ai tuoi figli, ma ti sbagli! In questo momento, nel mio cuore c’è solo tanta amarezza e nella mia mente per te ci sono solo pensieri di odio. Voglio che tu soffra, come hai fatto soffrire me e i tuoi figli!».
Le tue parole così dure mi sbattono in faccia la verità come uno schiaffo in pieno viso. Resto lì impietrito. In quel preciso istante i miei errori mi piombano addosso e mi immobilizzano: sono stato un pessimo marito e un pessimo padre. E ora che faccio? Se me ne vado li rivedrò ancora?... Ho paura, non so che fare… Sì, devo andare, è l’unico modo per avere una speranza di tenere unita la mia famiglia, c’è bisogno di questo mio sacrificio, solo così potrò ritrovare dentro i tuoi occhi quella luce che ha sempre riempito il mio cuore. Il mio amore per te è così grande da rendere me stesso il mio carnefice.
Ti chiedo se hai finito, ma tu ancora più determinata mi dici: «Sì, ho finito! Ecco le tue valigie, e se devi davvero far ritorno, torna quell’uomo che ho sposato. Al momento il mio saluto è questo, non aspettarti baci o abbracci, ma pensa a ciò che ti ho detto. Ciao!».
Ed è qui che prendendo le valigie, proprio in questo istante, un uomo, un padre, un marito, un carnefice si rende conto che, se anche dolorose, sono le scelte prese per amore che a volte ci rendono martiri di gioia.
«Allora ciao, Teresa».


È passato un anno da quel giorno. Ora sono qui seduto in questo piccolo grande spazio chiamato area verde, aspettando che entri per la tanto attesa visita settimanale, e mentre aspetto rivivo i momenti trascorsi qui dentro senza te e senza i miei bambini. Ricordo i primi tempi quando venivi a trovarmi, leggevo la soddisfazione dentro i tuoi occhi nel vedermi soffrire, a stento mi parlavi, non mi sfioravi nemmeno, mi parlavi dei bambini solo perché lo dovevi a loro. Avevo la sensazione che, se avessi potuto, mi avresti schiacciato come si fa con la testa di un serpente, avresti goduto nel vedere il veleno schizzato fuori dalla lingua, mi sembrava che stessi cercando la tua vendetta. Ma poi, man mano che il tempo passava, entrambi ci siamo resi conto di aver bisogno l’uno dell’altra e i nostri bambini di entrambi, ed è per questo che abbiamo deciso che proprio da questo posto dobbiamo tirare fuori solo i sentimenti migliori. Mentre ti aspetto guardo gli altri detenuti con i loro familiari: sembrano in gita, un insolito pic nic, apparentemente sereno. Ma io non sono sereno, si affollano i pensieri e l’ansia è forte, vorrei cancellare il passato, il male che ti ho fatto, dirti ‘ti amo’ per tutte le volte che non te l’ho detto, darti tutti i baci che non ti ho dato, stringerti tutte le volte che non l’ho fatto, chiederti di perdonare i miei errori, ma soprattutto di tornare ad amarmi come hai sempre fatto. Ho tanta voglia di tornare a casa con te e con i miei bambini. Cerco di convincermi che non è passato il tempo in cui il tuo cuore restava mio anche se ti ferivo, anche quando il dolore ti affliggeva. Cerco di allontanare i fantasmi che vivono in me, gli stessi che mi hanno accompagnato nella droga, quelli che mi hanno portato qui dentro, quelli che al momento del mio ritorno lascerò dormire. Ogni volta che ti vedo è come truccarmi, dipingere il mio viso per nascondere la paura ch’è in esso, la stessa paura che poi riappare quando, alla fine dell’ora, chiamano il mio nome; è come profumarmi per paura di emanare un odore sgradevole per gli altri, che si vuole invece coprire per riuscire a dare solo le cose buone nascondendo quelle cattive… Intanto rivolgo nuovamente gli occhi verso l’entrata, stanno entrando dei familiari, ecco, sei tu! Ma non è così. Per un attimo mi è salito il cuore in gola, tiro un respiro di sollievo perché temo di non essere ancora pronto, ma mi accorgo che le ombre sono sparite dalla mia mente e mi dico: l’amore, la presenza di questa donna nella mia vita sono così importanti che il solo vederla fa svanire dalla mia mente tutte le paure, lasciando davanti ai miei occhi una scia di splendore.
Mi sono distratto e tu sei già qui, accanto a me. Allora i miei occhi sorridono, il mio cuore gioisce. Ancora una volta sei qui al mio fianco, mi alzo per salutarti, ti avvolgo con le mie braccia, il mio viso sfiora il tuo, il tuo profumo inonda i miei sensi, il mio corpo si riscalda al contatto col tuo, un brivido attraversa la mia pelle, il desiderio di te è cosi forte! Poi mi siedo e tu sulle mie gambe, mi chiedi come sto, ma io a mia volta ti chiedo come stai.
«Bene», mi dici, poi aggiungi «anche i bambini stanno bene».
Ora anche io sto bene. «Parlami di te, raccontami della tua settimana». In realtà forse vorrei sentirti dire che hai pensato tutto il tempo a me, ma senza aspettare la tua risposta passo subito ad altro: «E i tuoi come stanno?».
«Bene! Ti salutano e aspettano con gioia il tuo ritorno». Poi ironicamente aggiungi: «Al contrario di me».
Per un attimo mi si gela il cuore, ma poi il tuo sorriso e il tuo sguardo sincero allontanano il panico. Con tutte e due le mani prendo il tuo viso, l’avvicino al mio, avvicino anche le mie labbra alle tue e uniti ascoltiamo il ticchettio dei nostri cuori e le campane in festa. Chino il tuo capo e, sollevando il mio, bacio la tua fronte in ricordo del nostro primo bacio: fu proprio così, ti baciai sulla fronte e non sulle labbra, eri così piccola, ricordo che il mio primo pensiero fu di non rubare subito la tua innocenza, forse con quel mio gesto ho voluto affermare la tua purezza, la stessa che poi fu solo mia... Non l’ho mai dimenticato! Poi ti prendo per mano e insieme cominciamo a camminare, le nostre mani unite dondolano al passo, non facciamo altro che guardarci, respiro dal profondo il nostro amore più che mai, indifferenti a tutto attraversiamo tutta l’area. Guardandoti intorno mi chiedi informazioni su chi vive nelle palazzine in fondo o su altri edifici del carcere.
Passeggiavamo così qualche anno fa in Slovenia, in vacanza a Porto Rose, lungo la banchina che si allungava tra il mare e i prati: il mare era una tavola, non molto distanti c’erano anche le montagne, era il calar del sole e la sua ultima luce si rifletteva nel mare, il vento accarezzava i tuoi capelli e uno di questi s’era appoggiato sulle tue labbra disegnando una linea di confine…. Dio, quanto sei bella!
Ad un tratto una voce: Grazianooo, è l’ora di rientrare in cella! È arrivato il momento più amaro, il ritorno dell’incubo. Tu trattieni il respiro, io una lacrima, ma entrambi lotteremo un’altra settimana con la speranza che passi in fretta. Raccogliamo la nostra roba, ho due buste di carta nelle mie mani, dentro ci sono i miei vestiti, li riporterai puliti la prossima settimana. Ti accompagno verso l’uscita consentita solo ai familiari, prima però ci rechiamo verso la statua di Padre Pio posta ai piedi della chiesa, hai una rosa in mano, l’hai  colta in un giardino qui fuori dalle mura, la poni ai suoi piedi esclamando qualcosa, io non faccio domande ma, come te, parlo con lui. Stai per varcare la soglia dell’uscita e mentre stanno per allontanarsi, le tue braccia avvolgono il mio corpo, sei la metà di me, ma ci riesci ugualmente, come è possibile? Mi baci in continuazione, voglio parlare ma non ci riesco, sto soffocando nel piacere, rimango con le braccia distese e i due pacchi ancora in mano, poi all’improvviso esclami: «Quanto ti amo! È tutta la settimana che aspetto questo momento, non sai quanto mi sei mancato…».
È la prima volta dopo un anno che te lo sento dire, è la stessa sensazione di quel ‘sì!’ detto il 27 settembre di molti anni fa. Per un attimo rivivo alcuni frammenti di quel giorno, del nostro matrimonio. Era una splendida giornata di sole, il tuo abito azzurro uno splendore, e tu eri bella, limpida e dolce come l’acqua di un ruscello, leggera come l’aria che sai che c’è ma non la vedi, come un pittore che dipinge sulla tela quello che non c’è.
Poi per un attimo smetti di baciarmi e mi dici: «La verità, amore, è che ogni giorno che passo lontana da te sento sempre più il desiderio di averti a casa. Sì, ora lo voglio!». Mentre lo dici una lacrima esce dai tuoi occhi, prima che ti bagni il viso, io con la mano l’asciugo. Che meraviglia vedere cadere dai tuoi occhi lacrime di gioia! Per un attimo ci siamo dimenticati che dobbiamo lasciarci e mentre si staccano, i nostri corpi, le braccia si allungano per rimandare il distacco, infine restano gli sguardi. «Ciao, amore!».
L’area non è più verde, intorno a me è buio, la mia luce se n’è andata, ha portato via con sé il mio cuore, non mi resta altro da fare che tornare in cella. Attraverso tutta l’area e penso: che brutto scherzo a volte fa il destino, la mia amata è proprio a un passo oltre queste mura, io sono lì con lei, ma non posso vederla né toccarla. Che prova dura ch’è la vita! Varco l’uscita per avviarmi verso la mia cella, mi accorgo di sbagliare strada, è a sinistra che devo andare. Di fronte a me c’è un corridoio da percorrere, il pavimento è di gomma nera, ho freddo anche se i termosifoni sono accesi, è lungo, non finisce mai. Passo davanti alla cucina centrale, alcuni detenuti aspettano di ritirare il cibo, normale routine, è il loro lavoro, sento le loro voci che rimbombano nella mia mente come un’eco. Sono ancora frastornato, arrivo a un cancello, quello del mio reparto, blu come tutte le sbarre, sembra che qui dentro tutto tenda ad ammalarsi di cecità, per un attimo ci si potrebbe anche dimenticare dei colori, i meravigliosi colori della vita! È il mio reparto, il G8. Alla mia destra una telecamera che mi inquadra, il cancello blu si apre automaticamente, lo attraverso, di fronte a me un nuovo corridoio. Continuo a camminare guardando solo avanti, mentre dietro di me lentamente il cancello si richiude prendendosi anche i miei ricordi, cammino lentamente anch’io, alla mia sinistra le finestre che scorrono una dopo l’altra sono chiuse, non passa aria, mi sento soffocare. Al di là di queste intravvedo il campo da calcio, che non è coperto di erba perché è lo stesso dove passeggiano i detenuti. C’è un uccello sul terreno, che ci fa? Perché non vola via?
Sento il rumore delle chiavi, sono quasi arrivato. Sì, è così, sono le chiavi dell’agente che mi fa entrare, appunta il mio rientro indicando anche l’ora, sembra stufo, annoiato, forse anche a lui manca la famiglia.. E, come si fa quando si timbra un cartellino sul lavoro, giro a sinistra poi a destra, resta un piccolo corridoio da percorrere, un altro cancello automatico e poi un altro prima di salire la scalinata che porta in sezione, pochi metri ancora e arrivo alla cella 11, dove mi aspetta un blindato e la porta a sbarre, un piccolo letto, mi stendo ed è qui che ritorno con te in Slovenia a Porto Rose.

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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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