di Valerio Onida |
Lavorare all'esterno Il caso: un detenuto ottiene l’assegnazione al lavoro all’esterno del carcere, come previsto dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, con un provvedimento della Direzione regolarmente approvato dal Magistrato di sorveglianza; dopo circa un mese, durante il quale egli usufruisce regolarmente della misura, lo stesso Magistrato di sorveglianza - venuto a sapere, nell’ambito di un procedimento di liberazione anticipata, che il detenuto pochi giorni prima di iniziare il lavoro esterno aveva subito un provvedimento disciplinare - di propria iniziativa e senza alcun intervento della Direzione revoca l’ammissione al beneficio. Il provvedimento del magistrato è chiaramente illegittimo, anzitutto perché la legge prevede che l’eventuale revoca del lavoro esterno possa essere decisa solo dalla Direzione (che, al contrario, nel caso specifico riteneva necessario lasciare proseguire il lavoro esterno), con l’approvazione del Magistrato di sorveglianza, e non direttamente da quest’ultimo. Ma ai reclami che il detenuto inoltra (allo stesso Magistrato e al Tribunale di sorveglianza) in un primo tempo viene risposto che contro il provvedimento non è possibile nessun rimedio, in quanto non previsto dalla legge. L’interessato però, con l’appoggio dei volontari dello “Sportello giuridico” del carcere, non si acquieta ad un provvedimento che lo danneggia gravemente, violando un suo diritto. Infatti sin dal 1999 la Corte costituzionale (sentenza n. 26) afferma che contro gli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti dei detenuti è sempre dato un rimedio giurisdizionale (se c’è il diritto, non può mancare un giudice davanti al quale ricorrere), anche se ha lasciato alla magistratura il compito di individuare in concreto la procedura da seguire e ha finanche sollecitato il Parlamento a dettare una disciplina generale ed efficace. Sin da allora, è dunque chiaro che negare la possibilità di ogni rimedio significa violare la Costituzione. Secondo la Cassazione, contro gli atti dell’amministrazione si può ricorrere al Magistrato di sorveglianza, ma - nel caso concreto - era proprio un atto di quest’ultimo ad essere contestato, anche se si trattava di un anomalo atto amministrativo e non di una decisione giurisdizionale. Il caso veniva portato davanti al Tribunale amministrativo regionale (che si dichiarava incompetente) e in seguito davanti al giudice civile, con un ricorso di urgenza, che veniva poi ritirato quando il Tribunale di sorveglianza - finalmente convocato - accoglieva il ricorso del detenuto e annullava l’atto del Magistrato, ripristinando il lavoro all’esterno. Nel caso concreto, dunque, infine giustizia è stata fatta. Resta l’incertezza del diritto, dovuta al fatto che la legge penitenziaria, tuttora, prevede solo alcuni casi di reclamo, ma non disciplina nessun rimedio generale a disposizione dei detenuti per reagire a provvedimenti lesivi dei loro diritti. Si può aggiungere – per gli addetti ai lavori – che la Procura Generale competente, pur riconoscendo che nel merito la decisione del Tribunale di sorveglianza era giusta, ne ha contestato la competenza, perché non sarebbe prevista dalla legge, e ha sostenuto che l’unico rimedio contro l’atto illegittimo del Magistrato di sorveglianza (da considerare atto giurisdizionale anomalo) sarebbe stato …… il ricorso in Cassazione. E’ però del tutto evidente che un rimedio di questo genere non avrebbe alcuna efficacia, intervenendo necessariamente solo a distanza di tempo. E comunque sarebbe assurdo impegnare la suprema Corte per rimediare alla palese illegittimità di un atto che non ha nulla della giurisdizione, essendo frutto di una estemporanea iniziativa del Magistrato di sorveglianza che, in buona sostanza, si era sostituito indebitamente all’organo amministrativo competente, vale a dire la Direzione del carcere. Il nostro legislatore (spesso sollecito nell’inseguire gli umori repressivi attribuiti all’opinione pubblica, con inasprimenti di pene o limitazioni delle misure alternative) in quasi dieci anni non ha ancora trovato il modo di colmare la lacuna della legge denunciata dalla Corte costituzionale. Il diritto a rimedi effettivi nel caso di atti illegittimi che violano diritti è però un principio fondamentale della Costituzione, ed è garantito pure dalle convenzioni internazionali. Sarebbe bello che, anche sollecitato dal “piccolo” caso qui descritto, qualcuno si attivasse per darvi piena attuazione.
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