Di chi è la mia vita? Di chi è la mia vita? Così, formulando questa domanda cruciale, conviene affrontare la questione che, ormai da mesi e anzi da anni, occupa la scena sociale e politica del nostro Paese.
Chi decide come e quando io debba morire, nel caso non possa più avvalermi consapevolmente della libertà di cura sancita dalla Costituzione? Per libertà di cura, ovviamente, si intende sia la libertà “positiva” d’esser curati, sia la libertà “negativa” di rifiutare d’esser curati. Da una parte – la più “rumorosa” – della politica e della cultura italiane alla domanda si risponde invocando principi assoluti: la vita è un bene indisponibile, anche se si tratta della “mia” vita (la quale, per la verità, diventa “disponibile” da parte del potere, se si tratta di morire e uccidere in guerra). È, questa, una risposta che di per sé contraddice il dettato costituzionale, per il quale la vita è certo indisponibile, ma solo da parte di altri, che si tratti di singoli o di formazioni sociali o politiche. Infatti, almeno per ora, i sostenitori di questa prospettiva assolutistica non pretendono che diventi norma dello Stato applicabile ai casi in cui il soggetto cui si riferisce la scelta di farsi o non farsi curare sia cosciente, ma solo a quelli in cui sia in stato di coma, o comunque di impossibilità di intendere e di volere. Molti sono i motivi per sospettare che questa pretesa sia solo il primo passo di una strategia il cui fine ultimo sia l’abolizione, di diritto o anche solo di fatto, del dettato costituzionale. Un’altra parte, per ora troppo silenziosa, della politica e della cultura italiane rispondono invece a quella domanda mettendo in primo piano il diritto di ogni uomo e di ogni donna a decidere del momento ultimo, e perciò determinante, della loro vita. In questa prospettiva, dunque, la domanda più rivelatrice non è «di chi è la mia vita?», ma «di chi è la mia morte?». Se la morte, appunto, è il culmine della vita – se ogni storia di vita riceve senso dalla sua conclusione, come avviene per ogni narrazione –, allora nella mia morte c’è il significato (e il valore) della mia vita. Chiunque pretenda di privarmi della decidibilità della mia morte, pretende anche di deciderla per me. Dunque, pretende di far suo il significato (e il valore) della mia vita. Qui si tratta di scegliere, appunto, tra una prospettiva politica autoritaria e assolutistica – che si riflette in una concezione provvidenziale e reazionaria dello stato –, e un’altra per la quale la politica è invece strumento volto alla libertà e alla dignità degli uomini e delle donne. La si può ben chiamare laica, questa prospettiva che oggi è sempre più messa in discussione. Per condividerla, non occorre (e neppure basta) essere atei o agno-stici. E invece occorre e basta condividere il valore del rispetto: valore non assoluto ma relativo nel senso più profondo e grande, cioè in quello che nasce e vive nella relazione con l’altro. |
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