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Carcere: luogo di riconciliazione? – Ivo Lizzola
Carcere: luogo di riconciliazione? – Ivo Lizzola
Giustizia riparativa e mediazione – Convegno regionale  giugno 2008

Dal 2001 la Facoltà di Scienze della Formazione ha costruito rapporti, progetti e presenze che si sono intensificati, con la Casa Circondariale di Bergamo. Non c’è ovviamente il tempo di un racconto, ma voglio restituire alcune linee di riflessione sulle quali, con il gruppo di lavoro multidisciplinare e con le studentesse e gli studenti con i quali abbiamo lavorato in questi anni, ci stiamo muovendo per provare a leggere questa esperienza.
L’intuizione iniziale è stata quella di individuare nel carcere un luogo educativo importante, un attraversamento importante dell’avventura umana segnata dalla fragilità e dalla colpa. Dunque rilevante per la prova cui sottomette l’azione educativa..
L’esperienza di questi anni ha mostrato come sia vera quella riflessione attorno alla relazione educativa che porta a definire l’incontro con l’altro come una ferita. L’incontro tra gli uomini è una ferita, dicono alcuni grandi filosofi francesi, che sono nostri maestri, pensiamo a Simone Weil. È una ferita nella quale giochiamo un esercizio di forza e nella quale ritroviamo anche le nostre possibilità di cura. Non a caso alcuni pedagogisti parlano dell’educazione come dello sforzo per rompere insieme delle resistenze, per poi costruire insieme. Tutti e due i movimenti la costituiscono. Abbiamo incontrato nel carcere alcune resistenze specifiche, come pure alcune linee di costruzione delicatissime e difficili. Nelle relazioni che tra le donne e gli uomini si danno nelle carceri, da dentro il loro fallimento ed il loro riscatto c’è comunque vita, può nascere nuova vita. Vediamo le resistenze.
La prima resistenza con la quale dobbiamo fare i conti è  la resistenza dell’istituzione, della sua logica, dei suoi paradigmi dominanti. La prof.ssa Mazzuccato scriveva recentemente, che l’astrazione giuridica prende il posto della sostanza del reato. Potremmo dire che in qualche modo la pena sostituisce la colpa.
La prima resistenza da rompere per una azione educativa in un Istituto di detenzione nasce dalla sostituzione dell’astrazione giuridica alla sostanza del reato, alla realtà e alla storia della relazione ferita.  La pena, il tempo della detenzione, quello definito nel dispositivo della sentenza, finisce spesso per “sostituire” la colpa. E la forma dell’espiazione (lo “scontare la pena”) sostituisce spesso anche il ripensamento personale, e la ricerca di un “riscatto”. E uso la parola “riscatto”, traducendo male il termine “rescatar” di María Zambrano, che indica il movimento profondo, interiore, del “tornare a prendere” parti di sé nel proprio passato ancora non del tutto maturate, non lasciate ancora senza germinazione. “Riscatto” che rende possibile raccogliere il peso della colpa, come tenere in sé la ferita arrecata; riscatto che impedisce, comunque,  di essere ridotti alla ferita e alla colpa soltanto.
Invece nella esperienza di detenzione troppo spesso si è in qualche modo tolti fuori “dal vivo” di un’esperienza di ingiustizia e di giustizia che vede protagonisti donne e uomini, detenuti e vittime.
La condizione segregativa del carcere, il continuo scontro con le strette limitazioni alle possibilità di scelta e di espressione di sé, le esperienze della dipendenza da altri sono una costante sempre presente in una quotidianità che può assumere i caratteri dell'abulia e dello svuotamento. Oppure i tratti del deserto e del labirinto (ricordo le pagine di María Zambrano, che parlano dell'esperienza del tempo nella segregazione dell'esilio). Deserto perché il tempo ristagna "e il vivere si fa, a volte, irraggiungibile quanto il morire". Labirinto perché le dimensioni del tempo (passato, presente e futuro) si trovano aggrovigliate, un poco vanno e tornano, e si ingarbugliano. Le trame passate soffocano i fili che tendono al futuro; oppure sono questi che non reggono (ancora)  la assunzione dei grovigli del passato. Ri-presa sul passato nel loro definire un “pegno” oltre che a un terreno da riscattare, un terreno di riscatto.
Si ripropone ancora, in questo caso, la faglia del punto di partenza, (la prima fu quando si dovettero aprire gli occhi e respirare fuori dal “riparo della verità materna”, nella “fame di tutto”). E nel rischio di non farcela.
Dandosi tempo ‘ulteriore’ in quel fondo di “debolezza di cui avere cura dentro se stessi, dentro la propria vita”. Provando ad “essere altro da quanto intravisto”. Guardando nuovamente, attraverso quella perdita e quella frattura. Ripensare la propria storia, sé, la propria immagine, le proprie risorse, senza provare a negare o credere di poter abolire il patire.
Ma occorre che da una condizione segregativa possa maturare una esperienza  di avvicinamento a condizioni di bisogno e di limitazione, di dipendenza e non autosufficienza, di vulnerabilità. Preziosa occasione per una prova di sé, di nuovo inizio, di scoperta di risorse ancora possedute e d'una inedita e non ancora provata dimensione d'esperienza responsabile e dedicata . Da dedicare, da destinare di nuovo. In dignità.
La possibilità di “continuare a nascere”, come dice Jacqueline Morineau, nel carcere viene interrotta dalla forma di relazione, dal rapporto con il tempo, dal rapporto con lo spazio di vita, che lì viene istituito. Eppure, nonostante questo, anche dentro le mura delle carceri riesce a maturare l’interrogazione dei valori, l’attesa di comportamenti nuovi e la manifestazione di comportamenti assolutamente inediti per la propria biografia, il recupero della memoria e l’assunzione di un impegno (di una “consegna”) verso i figli, verso la madre, verso le vittime. Non sappiamo bene, a volte, come nasce tutto questo. E non sappiamo mai dove porterà. Eppure si dà. Fa parte di quelle realtà che si danno come l’amore, (l’amore si dà, viene a noi, non lo si programma) o come il perdono, (si dà, in esso ci si ritrova).

La seconda resistenza con cui fare i conti riguarda la difficoltà a rendersi disponibili a farsi carico di se stessi da parte dei detenuti. È raro che maturi un senso di colpa che gradualmente diventi  impegno responsabile e che non porti a essere paralizzati dalla colpa. La nostra convivenza porta in sé una tradizione,  e alcune culture che per lunghi periodi hanno “costruito” l’educazione e il vincolo sociale su processi sottili e pesanti di colpevolizzazione (si vedano gli studi di Vergote al   riguardo).
La “società dei giusti”, con la sua retorica del merito e della colpa, costituisce un universo chiuso, con pesanti esclusioni. Come “attraversare” la colpa perché questa possa essere “il più profondo appello di sé ad un al di là da sé” e quindi una forza vitale che riapre il  tempo e che lo attraversa con speranza? Non lo subisce come chiuso.
Servono relazioni con donne e uomini che  non dimenticano e che “rimettono la colpa”. Uomini che non fanno finta che nulla sia successo, e non collaborano a creare rimozioni ma che curano la possibilità di nuovi inizi, ne costruiscono la possibilità, lavorano per attivare risorse personali. Essi comunicano rispetto: di fronte a loro si è “riportati in integrità” perché non chiudono nel giudizio, aprono le storie a sensi possibili, lasciano spazio.

La terza resistenza è proprio quella della cultura della “società dei giusti”, della “comunità della colpa e del merito” nella quale viviamo, che scambia la responsabilità con il giudizio di colpevolezza (o di vittimizzazione). Società che dopo il giudizio non sa volgersi verso il volto del condannato, e non sa neppure volgersi verso il volto della vittima.
La società della colpa e del merito lascia però pochissimo spazio alla società del legame della responsabilità, alla società dell’assunzione personale della colpa e dell’attivazione del riscatto, della riconciliazione. Esci dalla colpa soltanto col riequilibrio, meritandoti qualcosa. In una logica tutta compositiva, di misurazioni. Ma è lo squilibrio che resta: la ferita resterà comunque. La tua vita cambia, sia che tu sia vittima sia che tu sia colpevole. Dovrebbe cambiare anche per te operatore, che incontrando il colpevole, qualche volta la vittima, scopri che puoi incontrarlo davvero soltanto se non ti ritieni innocente, soltanto se ti muove anche un senso di debito, in qualche modo anche un certo senso di colpa originaria, quella che ti porta all’attenzione all’altro, al sentire nel profondo l’altro, e quindi la tua avventura di ricerca della verità. La seconda linea di resistenza da rompere è questa: quella del cattivo uso del senso di colpa, del malinteso modo di vivere il rapporto con la colpa nella nostra cultura, nella nostra società, direi quasi nella nostra antropologia.

La quarta resistenza avviene sulla “soglia del pentimento”, il confine di una trasformazione personale. Resistenza che impedisce la conquista di una complessità e di una apertura, e la lettura di un tempo altro per sé.
Non è semplice restare nell’esitazione, nel ripensamento, non è semplice rendersi conto di ciò che vivono gli altri, le vittime. Per capire che si può essere vittima.
I costi morali, identitari sono alti: trasformare il “così è stato” in “così ho voluto” ne è un passaggio necessario e duro, per nulla immediato e semplice. Maturare che contano altre cose nella vita, che la prepotenza è ingiusta che è ingiusto violare, recidere legami, ingannare, fa male.
Occorre, per incontrarsi sulla “soglia  del pentimento”, rompere la  mimesi, e il contagio tra violenza del delitto e violenza della punizione. Su questa soglia a volte si registra quanto il pentimento mini la fiducia. Di chi si pente non ci si fida: avendo svelato la sua ambivalenza, il suo doppio, la sua ambiguità… cosa prevarrà domani? Anche chi si pente fatica a fidarsi del suo pentimento, a maturarlo, ad accettarlo; fatica, a volte, a fidarsi del suo sentire. C’è bisogno di relazione, c’è bisogno che anche tu ci creda con me, c’è bisogno di sentire questo attorno a sé, altrimenti del pentimento non ci si fida, anche quando lo si prova. Ci si trova stranieri, ci si trova doppi, ci si trova ambivalenti, un po’ svelati nell’essere luce e ombra. Solo nella relazione si regge e si prova qualche passo.

La quinta resistenza viene dall’isolamento nel quale si trova uno spazio pedagogico in un penitenziario.
L’obiettivo “rieducativo” - anche quando è collegato alla importanza centrale di una presa in cura di sé, fisica e sanitaria, come nel caso di detenuti tossicodipendenti – risulta per lo più “isolato” all’interno di un contesto “sfavorevole”, anzi quasi oggettivamente “oppositivo” come quello carcerario definito da rapporti rigidi e formali, da deprivazione affettiva e relazionale. E anche da scarsità di nuove esperienze ed opportunità, oltre che da un difficile riconoscimento dell’individuo intero e della sua storia.
Lo “spazio pedagogico penitenziario” pare piegato ad altri paradigmi lontani da quello pedagogico: quello della sicurezza, quello del trattamento in chiave bio-medica o psichiatrica, quello delle procedure giuridiche
La progettazione “rieducativa” nel quadro dell’attività trattamentale dell’adulto detenuto (anche se tossicodipendente o immigrato) avviene in modo discontinuo, e con una certa carenza di attenzioni pedagogiche.
L’indirizzo e il coordinamento di un piano personalizzato non è in realtà assunto da una figura educativa ma pare risultare piuttosto da una “composizione” di interventi di figure diverse (assistenti sociali, psicologi, educatori, medici, insegnanti) con una certa confusione tra cura educativa e terapia. Trova, così, ostacoli una presa in carico globale del soggetto, degli elementi soggettivi ed esistenziali, della sua rete di relazioni affettive e di prossimità. Il contesto detentivo rende allora difficile la valorizzazione del soggetto come protagonista attivo nella costruzione di un nuovo modello di interpretazione della realtà, di una modifica dei significati disadattivi e cristallizzati. Il reinserimento viene pensato spesso in modo formale e meccanico, anche per le condizioni sfavorevoli in cui si agisce sul piano organizzativo, culturale e sociale
L’”osservazione della personalità” del detenuto non può rischiare di raccogliere informazioni superficiali, come rischia se è ridotta a procedura burocratica non orientata da criteri psico-pedagogici. In questo caso si riduce a cogliere quasi solo regolarità di condotte, adesioni alle attività trattamentali; atteggiamenti “collaborativi” conformati, omologati, acritici. Propri di detenuti che “non danno fastidio”.
Gli operatori stessi (molti di loro) sono ben consapevoli di questo rischio di rigidità,  di formalismo, di superficialità nelle relazioni: tutti elementi  che possono rinforzare una certa malafede, una forte funzionalità/strumentalità nelle relazioni. Allontanando da dimensioni di responsabilizzazione, di cooperazione, di  cambiamento  e prova di sé.
Ma il detenuto deve diventare protagonista della sua situazione e della sua strategia di riscatto. A questo fine occorre contrastare la “cultura della branda”, quella rassegnata abulia, quell”’atrofia del sentire” che, tra l’altro, elude il confronto con la colpa.
L’esperienza di detenzione non può essere vissuta come una parentesi che “riporta in parità i conti”, e da chiudere al più presto, senza un minimo spazio per una risignificazione del  proprio vissuto. Parentesi vissuta a volte come chiusa già durante quella “terra di mezzo” che è la misura alternativa.
Occorre pensare a occasioni per progettare insieme il percorso riabilitativo del detenuto, e con un “patto”  stabilito con il detenuto stesso nel coinvolgimento di tutte le aree: educativa, medica, della sicurezza
Nelle strategie “trattamentalI”, di “rieducazione” e “reinserimento”  (per usare i termini della normativa) ogni operatore deve ben avere presente che si rivolge a donne e uomini autori di reati, di comportamenti devianti, con  un portato di esperienze e di distorsioni relazionali e nella struttura di personalità, con una debole possibilità di immaginare altri tipi di vita possibile. E a donne e uomini detenuti, in condizione di costrizione che rischiano di rendere molto problematico ogni tentativo di sviluppo personale.

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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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