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Otto anni nell’ inferno

Leonardo De Pace Lòpez

Questo è il posto dove nessuno dovrebbe mai giungere. Appartiene ai luoghi più scuri e tetri dei nostri incubi, nel quale anche i più duri si piegano e recriminano la propria sfortuna. Qui, dove le madri piangono i propri figli, le mogli i mariti e i figli il genitore, si racchiude un mondo infernale, ai confini della realtà.

In un campo lontano da tutto e da tutti, come se fosse un posto maledetto, simile alla città dei lebbrosi ai tempi biblici, si erige una struttura bassa e ramificata, progettata con l’unico criterio di sfruttare un deterrente naturale contro chi pensa di evadere: un burrone di 100 metri nella parte più bassa e 300 in quella più alta, che si affaccia sul fiume. Ma dall’interno, dalla finestra delle celle non si riesce a vederlo, si può soltanto immaginarlo dopo aver ascoltato i racconti di qualche compagno che è riuscito a evadere, ma per disgrazia della vita è ricascato di nuovo in questo dannato posto.

Tre reti — ognuna delle quali di 4 metri d’altezza con filo dentellato nella parte superiore e quella centrale elettrificata con 24000 volt, dotata di sensori a raggi infrarossi e sirene d’allarme — rappresentano il secondo deterrente, oltre al fatto che le guardie hanno l’ordine presidenziale di sparare al corpo a chiunque tenti l’evasione.

Disposte dietro le reti, una dozzina di torrette alte 10 metri, separate un centinaio di metri l’una dall’altra e sorvegliate 24 ore al giorno, circondano il penale. Fra le reti e i padiglioni ci sono all’incirca una sessantina di metri ricoperti con piccoli cespugli e terra secca, detta “la piazza”, dove ogni settimana i detenuti vengono a giocare al pallone per non più di 45 minuti, se si comportano bene. Questo significa zero armi da fuoco e munizioni, nessuna rissa con conseguenze mortali o evasioni.

I sei padiglioni di massima sicurezza collettiva sono squadrati a coppie e separati senza un ordine logico. Ciascuno di essi ha 4 stanze con 10 posti per dormire, per modo di dire, perché non ci sono né letti, né materassi. Ogni cella è di 36mq approssimativamente, le finestre sono senza protezione da vento, pioggia e intrusioni d’animali come rettili e persino pipistrelli, che entrano durante la notte. I rettili e i ratti in ogni modo entrano anche dalla turca, disposta vicino alla porta d’entrata, che a seconda della cella può essere a destra o a sinistra. Questa specie di bagno non ha porta, ma soltanto un muretto alto 1,70mt che la separa dal resto della cella.

I colori non esistono, al di fuori del verde bruciato dell’erba che s’intravede dalle sbarre, anch’esse pitturate tristemente di rosso antiruggine.

In un piccolo cortile in mezzo al padiglione si gioca a calcetto, quando non è occupato per asciugare i panni.

I bagni comuni, nella parte sud della sezione, sono composti di 6 turche malridotte e senza porte, divise tra loro da muretti di cemento armato. Lo scarico dell’acqua si fa utilizzando un secchiello con il quale si raccoglie l’acqua da un vecchio vespasiano in disuso, collocato di fronte alle turche. Per avere acqua bisogna aspettare che la mandino, cosa che fanno ogni due ore circa e a volte non è nemmeno sicuro, perché si rompe molto facilmente la pompa, come successe con la rubinetteria e le docce tanti anni fa, per cui ora sono in disuso. L’acqua viene raccolta in una specie di mangiatoia di cemento, di forma rettangolare, dove solitamente ci si lava, alternandosi con quelli che riempiono le bottiglie, lavano piatti e pentole.

L’unica cosa sicura sono le perquisizioni che effettuano quasi quotidianamente e anche due o tre volte nella stessa giornata, a seconda degli stati d’animo dei detenuti. Sì, perché molte volte scoppiano grandi risse, quasi sempre dovute al controllo dello spaccio interno di droga. Ci sono state epoche che si organizzavano gli omicidi dei rivali a orari precisi e in luoghi specifici, arrivando al punto di ucciderne quasi uno al giorno.

Una giornata tipica

Una giornata tipica comincia con l’apertura dei blindati tra le 6: 00 e le 6: 30 a.m. Entrano circa una ventina di guardie per la conta mattutina. A quell’ora bisogna essere già svegli e vestiti, pronti ad affrontare eventuali problemi che possono variare dalla banale rissa per una sigaretta alla lotta per il controllo della piazza per la vendita della droga. A volte però scoppiano delle scaramucce per derubare alcuni compagni nuovi, appena arrivati, che non hanno avuto la possibilità di procurarsi un coltello per difendersi o allearsi a qualche gruppo, per cui la prima cosa da fare in un posto come quello è proprio procurarsi un’arma e schierarsi subito con una delle tante gang.

Dopo essersi accertati che non c’è nulla di strano in giro, allora i detenuti si cambiano di indumenti, si tolgono gli scarponi, i giubbotti e a volte le doppie paia di jeans e indossano indumenti più leggeri, tipici di quel clima caldo e umido, come pantaloncini corti, magliette senza maniche e scarpe da ginnastica, e così si preparano per le diverse attività sportive e non, sia collettive sia individuali che serviranno per trascorrere la giornata. Ci sono svariati gruppi: i lavandai, i giocatori di calcetto, quelli che alzano pesi fatti con bottiglie d’acqua, quelli conosciuti come i fabbri, specialisti a produrre armi: coltelli ma anche pistole e fucili artigianali, e poi c’è il gruppo di spacciatori che passano gran parte della giornata al telefono, utilizzando uno dei due telefoni pubblici che sono all’interno della sezione oppure i propri cellulari, per contrattare la droga che da fuori viene introdotta dalle “mule”, cioè prostitute, vecchiette e transessuali che per necessità si prestano.

I lavandai lavano la roba dei loro clienti, cioè di coloro che si possono permettere di “commissionare” questo lavoro. Tra i fabbri impegnati nel lavoro si distinguono due categorie. I fabbri tagliatori, ragazzi forti ed esperti nella ricerca di materia prima, che con piccole seghe d’acciaio o d’argento demoliscono non solo le sbarre nascoste alla vista delle guardie, ma i tubi di vecchie rubinetterie in disuso e persino il reticolato d’acciaio delle pareti. Sono conosciuti dalle guardie come le “termiti”. Poi ci sono i maestri fabbri, artisti nell’arte di disegnare e produrre ogni tipo d’arma: da una scimitarra a un fucile a canne mozze e, per quelli più discreti, pistole a 3 o 5 colpi a seconda della dimensione del proiettile. Queste armi, che molte volte fanno parte di un vero arsenale di guerra, quasi mai sono utilizzate per evadere, bensì per affrontare eventuali guerre con bande rivali all’interno della propria sezione, oppure per assalire altri reparti. Questo ciclo si ripete ininterrottamente da sempre, perché le sbarre sono rimpiazzate regolarmente, e le pareti vengono rinforzate ogni volta che i tagli si fanno troppo profondi.

Bisogna sapere che quasi tutti i pagamenti sono fatti con droga, principalmente marijuana e pietra di crack. I modi per guadagnarsi una pietra sono molti: fare una o più file per il turno al telefono di un compagno, oppure lavare i piatti e riempire le bottiglie d’acqua ogni volta che l’assistente addetto alla pompa di questo liquido prezioso si ricorda di attivarla.

A questo punto scoppieranno le prime risse: tra il lavandaio, che ha messo da parte l’acqua per lavare la roba accumulata, e i compagni che, dopo aver tagliato per tutta la mattinata le sbarre e averle affilate fino a farle diventare dei rasoi, hanno voglia di rinfrescarsi prima di passare alla fase della vendita e subito dopo alla parte più piacevole, la fumata; o tra il lavandaio e quelli che hanno appena finito di giocare a calcetto e, tutti sudati e stanchi, vogliono rinfrescarsi per abbassare la temperatura, prima di passare al piacere e fumarsi anch’essi la loro vincita, perché ogni partita, giustamente per loro, comporta una scommessa di droga, perciò anche queste sono abbastanza violente; oppure tra i pesisti che dopo un paio d’ore d’intenso sforzo, sotto il sole, vogliono soltanto buttarsi un po’ d’acqua addosso, così che cominciano a contendersi la poca acqua che c’è. Di solito chi ci rimette: è il lavandaio che se la cava con qualche schiaffeggiata o scazzottata senza successive complicazioni.

Ma siamo soltanto alla metà della giornata.

Verso le 11:30 a.m. gli addetti alle stoviglie devono lavare i piatti e le poche pentole per raccogliere il riso e fagioli che, come tutti i giorni, serviranno di lì a poco, sperando che il riso non sia crudo e con il sale giusto e che nei fagioli ci siano pochi sassi e non siano vecchi oppure andati a male. La carne scarseggia perciò bisogna arrangiarsi come meglio si può. I detenuti più fortunati, quelli che hanno parenti che gli fanno colloquio e godono di un minimo di rispetto da parte dei compagni, tanto da non farsela rubare, si fanno portare la domenica dei colloqui qualche pezzo di carne, che con molta fortuna gli durerà non più di due giorni, sempre a condizione che venga riscaldata più volte al giorno per interrompere la decomposizione.

Per cucinare e riscaldare il cibo si utilizzano delle resistenze che però sono ufficialmente proibite. Come base dell’improvvisata cucina si usa una vecchia pentola e gli estremi della resistenza sono collegati uno al positivo del cavo dei riflettori fuori della sezione, l’altro alle sbarre che fanno da massa. Il resto dei compagni o mangiano solo riso e fagioli con qualche pezzo di banana bollita, oppure, se sono capaci, si guadagnano qualche pezzettino di gatto fritto, uccidendolo e cucinandolo per chi ha l’allevamento di questi felini, o a volte si accontentano soltanto di bere il brodo ricavato dalla bollitura del gattino. I più sfortunati restano a guardare e, dopo che tutti hanno finito di mangiare, andranno a cercare qualche ossicino da spolpare nel bidone della spazzatura.

Dopo mangiato, si formano altri gruppetti: quelli che giocano a domino, quelli che giocano a scacchi o dama, i più tradizionali si dispongono a giocare a parchess, altri a dadi, un gioco chiamato “Chiquitica” (piccolina) perché si usa un dado piccolissimo fatto di osso di vacca, procurato dalla cucina delle guardie. Questo è uno dei giochi più proibiti nelle carceri del Costa Rica oltre alle carte, perché è il responsabile della maggior quantità d’omicidi, dovuti alle scommesse e all’intensità con cui si gioca. Quelli incaricati di mantenere il flusso di droga sono i massimi promotori delle scommesse, perciò sono i primi a mettersi in mostra nel giocare per invogliare gli altri a fare lo stesso e aumentare così la vendita di merce.

Poi c’è la fascia dei più sfortunati, quelli che non sanno fare altro che fumare crack. Nella scala gerarchica sono nello scalino più basso, ma anche la loro categoria è suddivisa in gruppi. Quelli di loro che hanno più tempo nella sezione sono al primo gradino, quindi sono usati in compiti più impegnativi, a volte come palo dai cosiddetti fabbri di coltelli e armi in generale. Gli altri sono considerati meno di niente per quello che sono disposti a fare per la loro droga preferita, perciò sono sfruttati per i lavori più indegni, come pulire le cloache, cacciare topi, scarafaggi, scorpioni e, come se non bastasse, uccidere le mosche, le quali sovrabbondano nei mesi di aprile e maggio. Durante questi mesi le mosche sono pagate con una pietra di crack per ogni mille, quindi molte volte si accoltellano per rubarsele a vicenda. Altre volte sono utilizzati dai capi-banda delle sezioni per soddisfare le loro necessità fisiologiche più basse, tutte sessuali e anche per riempire le loro riunioni. Ricordo con molto disgusto il ballo della bottiglia che era spesso ripetuto nelle feste di compleanno di alcuni “medici” (così viene chiamato chi vende la merce) più sadici. Questo ballo consiste nel sostenere una bottiglia di un litro e a volte di più, con il muscolo dell’ano a ritmo di musica, mentre tutti si drogano e si ubriacano con la “Chicha”, un liquore prodotto dalla fermentazione di pane, frutta, un po’ di lievito, quando c’è, e zucchero. Queste feste sono vere e proprie orge, comunque non sono le cose più terrificanti, se consideriamo che molti tossici pagano i loro debiti di droga offrendo la propria moglie come pagamento e, in un’occasione persino una madre si è “offerta” di pagare i debiti del figlio con prestazioni sessuali, sotto minaccia diretta del “medico”, che avrebbe ucciso suo figlio se quel giorno non avesse pagato tutto.

Verso le 4:00 p.m. servono la cena, anch’essa a base di riso bianco e fagioli neri e se Dio la manda buona con un po’ di insalata di carote, cavolo e delle uova sode.

Sono pochi quelli che mangiano subito, quasi sempre aspettano la chiusura che sarà più o meno un’ora dopo. Trascorsa una mezz’oretta mandano per non più di 10 minuti l’ultimo getto d’acqua, che servirà per cambiare l’acqua alle bottiglie, riempire i bidoni di 100 litri presenti in ognuna delle celle per lo scarico della turca durante la notte. Quest’acqua molte volte viene utilizzata anche per pulire qualche posata o piatto rimasto sporco nell’ultimo tiro d’acqua e un’ultima spruzzata servirà anche per darsi una rinfrescata prima di rinchiudersi in cella fino al giorno dopo. Ma non tutti lo faranno perché i minuti che restano prima della chiusura sono preziosi per i viziosi per procurarsi l’ultima dose di marijuana, o con molta fortuna un paio di pietre di crak da fumarsi dopo cena o prima di andare a letto, che poi è la trappola che li incastra e non li fa smettere fino a notte fonda, se prima non vengono accoltellati dal “medico”, stanco degli assedi da parte dei fumatori che non rispettano orari.

La chiusura delle celle viene effettuata verso le 5:00 p.m. , tranne i lunedì che si fa un po’ più tardi per una conta generale che chiama ogni detenuto per nome, perché entra a lavorare l’altro gruppo di guardie che sostituisce quello della settimana precedente. In ogni turno settimanale si danno il cambio quasi settecento guardie carcerarie.

Appena entrati tutti nelle proprie celle, si comincia a preparare la vera cena, in altre parole si tenta di migliorare quello che ha passato l’amministrazione. Non è facile perché non ci sono a disposizione molti ingredienti né spezie por arricchire il cibo, così che bisogna accontentarsi quasi sempre del solito riso con fagioli ma fatti tostare e quindi meno squallidi. I fortunati che riescono a mangiare meglio sono rarità, soprattutto in questa sezione. Sono di solito i “medici” o i detenuti con qualche possibilità economica che però devono allearsi con questi personaggi per ricevere protezione, altrimenti non potrebbero tenere le proprie cose senza essere derubati o addirittura uccisi per il cibo, sottratto non per fame ma per essere scambiato con droga.

Dopo mangiato si formano piccoli gruppi dentro ogni cella, i fumatori di marijuana da una parte, i fumatori di crack da un’altra, quelli che sniffano cocaina, che sono la minoranza, quasi sempre nascosti nei loro angoli letto e per ultimo i non tossici che, o guardano la televisione, o giocano a scacchi o semplicemente parlano tra di loro della giornata trascorsa o di cosa faranno il giorno dopo o dell’argomento più comune: come evadere da quell’inferno. Questo è il sogno ricorrente di tutti coloro che hanno sempre i cinque sensi a posto, soprattutto fra gli stranieri, che si sentono discriminati dai detenuti del luogo, non hanno parenti che gli fanno colloquio, non gli è data la possibilità di lavorare e la cosa peggiore è che molto probabilmente non avranno mai la possibilità di usufruire del beneficio della metà pena, che è l’unico beneficio esistente, perché non hanno un nucleo famigliare che si assuma la responsabilità di loro. Perciò ci sono detenuti stranieri che hanno trascorso fino a 25 anni di carcere, arrivando al fine pena senza poter beneficiare di questa disposizione perché non sono riusciti a farsi una famiglia. È veramente penoso vedere come una persona si consuma in un posto come quello, lottando tutti i giorni per la propria vita, durante tanto tempo. Ci sono esempi di ragazzi che sono entrati per scontare condanne di pochi anni e, a causa della mentalità contorta di alcuni detenuti che li hanno compromessi, si ritrovano a pagare due o tre omicidi.

Non si può dimenticare però un piccolo gruppetto allontanato da tutto e tutti quelli che non la pensano come loro, formato da almeno due o tre persone in ogni sezione che si dedicano alle scienze occulte, come mezzo per inseguire la libertà. Sono di solito carcerati anziani di zone rurali, dove si praticano la magia bianca e la stregoneria. I loro riti li realizzano tutti i martedì e venerdì a mezzanotte in punto, accendendo due candele una nera e una bianca, e ripetendo per un’ora preghiere e riti imparati da alcuni libri, quali: San Cipriano, la bibbia nera, Il Dragone Rosso e molti altri. Ripetono a memoria anche le orazioni del cane nero, oppure quella di Santa Teresa per rendersi invisibile. Molte volte allevano gattini completamente neri per i loro riti più perversi. Per questo rito usano sette gattini neri senza macchie, li mettono dentro una barattolo d’alluminio e lo chiudono con un coperchio rinforzandolo con del filo di ferro, dopo di che lo mettono sul fuoco cucinandoli vivi. Dalle ossa che si ricavano nasceranno sette folletti che faranno tutto quello che si desidera, anche se si dovrà pagare un prezzo. Ma chi pratica questi riti è disposto a pagare qualunque prezzo; in fondo per un condannato a centinaia di anni che importanza può avere chi si prenderà la sua anima?

Infine, se tutto va bene, la notte trascorrerà senza ulteriori problemi, però se siamo nelle vicinanze di qualche festa importante: Natale, Pasqua, o qualche festa nazionale, i tossici più incalliti che hanno finito il proprio credito con il “medico”, cominciano a tagliarsi le vene delle braccia e i più intrepidi anche quelle del collo, per farsi portare all’ospedale, ricavare qualche moneta fra le persone in attesa nella sala d’emergenza, tornare poi al più presto in cella, a volte facendosi ricucire malamente le ferite dai dottori, per continuare a fumare la maledetta pietra di crack e tentare così di vincere la paura di un altro giorno che presto si avvicina e che porterà con sé incertezze e paure.

Una domenica di colloquio

I colloqui si svolgono tutte le domeniche dentro ogni sezione, al di fuori di quella di minima sicurezza dove si tengono anche nelle aree verdi attorno alla sezione.

Questo è il giorno più atteso sia dai detenuti tossici, non tanto perché rivedono i propri cari ma perché gli portano i soldi per pagare tutto quello che hanno fumato in settimana, sia dal “medico” perché riscuoterà il credito dato e il sostanzioso guadagno ricavato dalle minuscole dosi fatte. Tuttavia c’è sempre una piccola minoranza che attende il colloquio per rivedere genitori, coniugi, figli e amici, però, siccome la maggioranza è quella che marca la riga, i colloqui si trascorrono sotto grande pressione.

Ogni padiglione di questa sezione è lavato con acqua e sapone da tutti i detenuti, con l’ultimo getto d’acqua del sabato. Quasi tutti hanno il proprio spazio, comprato da un altro detenuto, di solito il “medico”, che a sua volta lo ha probabilmente acquistato a un prezzo stracciato o come acconto di un debito di droga.

La domenica mattina tutti si svegliano molto presto e di solito non ci sono problemi seri perché ognuno è concentrato nel prepararsi per il colloquio. Quel giorno è sicuro che tutti si laveranno, facciano colloquio o no, perché non gli permetterebbero di gironzolare tutti sporchi o maleodoranti. Si vestono nel miglior modo possibile, a costo di farsi prestare la roba, tentando di non far notare il proprio degrado causato dalla droga.

Le porte del penale si aprono verso le 8:00 a.m., così che bisogna sbrigarsi. Appena finito di vestirsi, si deve cominciare a preparare lo spazio che ogni detenuto ha comprato. Ogni area è grande due metri di lunghezza per uno di larghezza, delimitata da piccoli buchi per terra, a seconda del prezzo che si è pagato. Chiaramente il “medico” ha il posto migliore da tutti i punti di vista. È il più grande, quello strategicamente meglio ubicato e coperto dalla vista delle guardie al portone, perché ovviamente nel suo spiazzo si ricevono le mule con la droga e si comincia subito a preparare le dosi per la vendita anche durante la visita di parenti e amici, che a volte ne fanno uso. I colloqui finiscono alle 2:00 p.m., quindi c’è abbastanza tempo per fare due chiacchiere, mangiare qualcosa insieme alla famiglia e parenti e persino avere rapporti intimi con la compagna o moglie, perché molte aree di colloqui possono essere allestite come delle vere e proprie capanne indiane. Per chi non ha un posto di colloquio adeguato per tali scopi, ci sono le vecchie docce.

Il colloquio è un momento sacro da ogni punto di vista. Non si permettono discussioni tra compagni, se si dovesse presentare un motivo di diverbio tra due detenuti lo si rimanderà a dopo le 2:00 p.m., quando i visitanti se ne saranno andati. Da alcuni anni non si permette più ad alcune bande di tossici di rapinare i visitanti. Infine si cerca di trascorrere quelle 5 ore il più tranquillamente possibile.

Il pomeriggio della domenica è il momento più pericoloso della settimana, perché dopo il colloquio si devono pagare i debiti, perciò i tossici sono quelli che più rischiano di subire una coltellata, nel migliore dei casi, o persino di perdere la vita.

Ma anche i lunedì mattina sono molto pericolosi, perché alcuni viziosi, non necessariamente tossici incalliti, la domenica sera durante una delle tante feste improvvisate, dopo essersi fumato tutto quello che potevano pagare con soldi contanti, si sono venduti anche i vestiti, comprese scarpe, giubbotti e forse anche qualche regalino che gli hanno fatto amici e parenti. L’unica cosa che non venderebbero mai è il proprio coltello, con il quale il giorno dopo cercheranno di riprendersi con la forza tutto quello che hanno venduto la sera precedente. È logico che non sarà facile per loro uscire vittoriosi perché il “medico” è sempre circondato dal suo gruppetto di fedeli e, a meno che non arrivino con un piccolo esercito, potrebbero perdere anche la vita nell’intento.

Non tutte le domeniche pomeriggio però sono tragiche. Tutto dipende dalla buona gestione del credito da parte del “medico”: se si mantengono bassi i crediti, è quasi sicuro che verranno pagati, però se, per eccesso di fiducia nei clienti, il credito sale troppo, è quasi sicuro che il “medico” non riuscirà a farsi pagare e gli sfuggirà di mano il controllo della sezione, cosicché lo scontro sarà inevitabile. Per questo tutti i giorni non fa altro che raccomandarsi di pagare e chi non può farlo per intero per lo meno dia un acconto. L’importante è che ci sia la voglia di pagare.

Le domeniche dopo i colloqui sono anche ricordate con molta allegria perché è l’unico momento, per molti, di assaporare qualcosa di gustoso. I detenuti in quel carcere conoscono bene la sofferenza e la vera fame, per questo sono molto disponibili a condividere un boccone di cibo con i compagni più sfortunati, che per una ragione o per l’altra non hanno avuto colloquio. Ti fanno assaggiare i piatti tipici della loro regione d’origine, che vanno dalla tartaruga cucinata con latte di cocco, mono colorado fritto (che è una scimmia di color rossastro che vive nelle montagne), zuppa di iguana e una volta mi offrirono anche armadillo in salsa, tutto questo accompagnato da riso fagioli e tortillas (un pane piatto fatto di mais) che è la base della loro dieta. Sono persone molto semplici e con un alto senso di unione famigliare. A volte percorrono ore di cammino prima di giungere alla fermata del bus che li condurrà fino al penale, perciò quel giorno si alzano più presto del solito, per non arrivare tardi. Donne con tre o quattro bambini piccoli, che lavorano tutta la settimana e il giorno di riposo lo impiegano a far visita al proprio uomo, che molte volte non apprezza tutto questo sacrificio e maltratta la moglie o compagna obbligandola a portargli soldi per pagare debiti di droga. Sono molte, comunque, quelle che non demordono e rimangono imprigionate a questa dura realtà per numerosi anni con la speranza che un giorno qualcosa cambi. Ho conosciuto donne fedeli, forse a un proprio codice morale, rimanere assieme al proprio compagno per più di 25 anni, tirando su famiglie con enormi sacrifici, direi con veri e propri miracoli. Sono donne che meritano rispetto e io lo faccio ricordandole oggi con queste parole.

La domenica di colloquio è giunta alla fine, stanno chiudendo i portoni del penale, si ripeteranno per ennesima volta in ogni sezione le stesse scenate per l’acquisizione di qualche tipo di droga che permetta alla maggior parte dei detenuti di trascorrere il resto del pomeriggio e la serata in una tranquillità surreale, cercando così di sfuggire dalla dura realtà che li circonda e che ogni giorno si stringe di più intorno a loro.

Resta il fatto irrefutabile che questo non è affatto un sistema adatto alla risocializzazzione di detenuti, perché fa acqua da tutte le parti e non c’è un’idea chiara di cosa fare per risolvere il problema che col passare del tempo peggiora, anche se le condanne sono state aumentate del 100% negli ultimi 5 anni.

Il tempo di creare

Dopo aver vissuto questo inferno per ben otto anni, ringrazio il Cielo per avermi concesso di poterlo raccontare, come testimonianza di una realtà spaventosamente tragica, con la speranza che un domani non troppo lontano tutto ciò possa cambiare per il bene di quegli uomini e delle loro famiglie che vivono queste sofferenze da molto più tempo.

Il solo fatto di vivere le giornate, una dietro l’altra intensamente e per tanti anni come se fosse l’ultima, ringraziando Dio per ogni respiro, mi ha insegnato ad apprezzare ogni volta di più la boccata d’aria successiva, cosa che prima di arrivare in questo posto non facevo, perché davo tutto per scontato. Il mio spirito ribelle non mi permetteva di accettare consigli da nessuno, nemmeno dai miei genitori che consideravo antiquati e invadenti nei miei confronti. Mio padre ripeteva sempre la stessa cantilena: “Tu dovevi fare il servizio militare così ti addrizzavano loro a legnate”, cosa che riuscii a evitare perché studiavo al Politecnico di Milano, quindi esente dal servizio di leva, però oggi come oggi l’avrei preferito un milione di volte.

Sono arrivato a pensare che il modo in cui gestivo la mia vita fuori poteva solo condurmi in un posto come questo, perché rincorrere sempre emozioni forti, per mantenere l’adrenalina al massimo, non è il migliore alleato per una vita felice. Rimpiangevo i pochi momenti sereni che avevo trascorso nella mia esistenza fino a quel momento, che sapevo non sarebbero tornati mai più, perché il tempo perso è irrecuperabile.

Questo mi ha fatto riflettere molte volte sul mio percorso: la dipendenza da rischio, il bisogno irrefrenabile di dimostrare a me stesso di poter affrontare pericoli che per altri sarebbero stati letali, maggiore il rischio, maggiore la sensazione d’onnipotenza e di essere vivo. Come ogni dipendenza anche questa è progressiva, sentivo la necessità d’affrontare rischi sempre maggiori, ponendomi come limite la morte. Tutto ciò, in effetti, mi ha portato ancora una volta a una emozione forte: una condanna a 35 anni!

Nel mio caso particolare però posso assicurare che il carcere è stato una cosa non del tutto sbagliata, perché mi ha fatto ritornare sui miei passi e mi ha fatto capire e apprezzare tante cose che prima non consideravo, colpa di una miopia caratteriale.

È vero — e ne sono consapevole — che un giorno di carcere non si paga nemmeno con tutto l’oro del mondo, ma anche qui Dio nasconde i tesori. Molti si domanderanno: cosa di buono può insegnarti il carcere che bravi genitori, un’ottima educazione e buoni amici non possano fare? Ebbene, nel mio caso: piegare un falso orgoglio basato su idee sbagliate della vita. Perché non basta che ti dicano e ti facciano capire che non sei il padrone dell’universo, che non sei infallibile e che sei sulla strada sbagliata, se pensi che a te non capiterà mai di cadere nella rete, che puoi uscire quando vuoi, illeso, come se niente fosse. Come se si potesse sfuggire a quella legge fisica che stabilisce che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e inversa. Come se non esistesse un Dio che proprio perché ci ama (anche se Lui non ha creato le carceri) a volte ci fa sostare in posti come questi per addolcire il nostro spirito e così mettere un freno al nostro galoppare senza direzione, simile a un cavallo imbizzarrito che se non si ferma a tempo può finire in un burrone. E allora sì che tutto è finito! Ma mentre c’è vita esiste anche la speranza di poter ricominciare. Rinascere proprio dalle ceneri come l’Araba Fenice!

Infine, questo luogo così squallido mi ha aiutato a riconoscere i miei veri nemici: gli occhi. Sono loro che vedono e trasmettono il desiderio al tuo cuore che se non è ben allenato e forte ti limita ad apprezzare solo gli aspetti più esteriori e superficiali della vita. Invece bisogna rinforzare lo spirito con cose buone e non lasciare che i sensi governino la coscienza.

Dopo tanti anni ho imparato che non ci sono esperienze belle o brutte nella vita ma soltanto esperienze, per cui bisogna accettarle, inclusa quella del carcere; anch’essa viene tollerata, dobbiamo mettercela tutta pur di farcela, perché siamo stati creati in modo perfetto e con la forza mentale per sopportare molto di più. In questa vita c’è un tempo per tutto. C’è un tempo per amare e un tempo per odiare, c’è un tempo per piangere e uno per sorridere, c’è un tempo per distruggere, che è quello che abbiamo fatto fino a poco prima di entrare qui. Adesso però è il tempo di creare. Perciò svestiamoci della vecchia personalità e lasciamo alle spalle quello che eravamo in passato. Seguiamo la luce di questo nuovo giorno che è davanti a noi, senza guardare indietro, utilizziamo il passato come un trampolino per spingerci il più lontano possibile verso un futuro migliore, senza mai dimenticare però, per non commettere di nuovo lo stesso errore.

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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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