41bis: parliamone Vogliamo andare sul difficile (e sul pericoloso). Ovvero parlare di 41 bis, alta sorveglianza, elevata vigilanza e quant’altro.
Vogliamo parlare, cioè, delle forme di custodia afflittiva e particolarmente afflittiva: quelle forme che, alla privazione della libertà, sommano un sistema di controlli e di limiti, di vincoli e di interdizioni, che rendono la reclusione un sistema organico di repressione della personalità. Ciò attraverso una serie rigida di limitazioni al trattamento, alla socializzazione, alla relazione interpersonale, alla comunicazione con l’esterno. Si pensi alle limitazioni nei colloqui e nella ricezione dei pacchi, alla censura della corrispondenza, alla compressione del diritto di difesa, alla esclusione totale dai benefici penitenziari. Il 41 bis, in particolare, configura una detenzione che nelle sue manifestazioni concrete comporta trattamenti contrari a quel “senso di umanità”, solennemente richiamato dall’articolo 27 della Costituzione italiana. Non solo: il “carcere duro” solleva due grandi questioni di diritto che vengono regolarmente ignorate. La prima è quella che dovrebbe escludere qualunque automatismo nell’assegnazione del detenuto al regime di elevata o elevatissima vigilanza. La seconda postula che quel regime non possa protrarsi se decadono le condizioni che hanno imposto il ricorso a esso. E invece, il “carcere duro”, costituisce la sorte obbligata e ineludibile, per alcune categorie di detenuti, classificati non in base a una diagnosi sulla loro soggettiva – effettiva e attuale – pericolosità (sotto tutti i profili), bensì sulla base del titolo di reato. Non solo: una volta classificati come “altamente pericolosi” – un vero e proprio stigma: una etichetta indelebile – uscirne è un’impresa pressoché disperata. Tutto ciò è giusto? Tutto ciò è costituzionalmente ammissibile? Tutto ciò è efficace? Vogliamo discuterne, partendo da una premessa: dell’ identità di quei detenuti (nella grandissima parte, probabilmente autentici criminali, giustamente condannati a pene lunghe) non interessa qui discutere. Perché questo è l’unico punto che riteniamo, incrollabilmente indiscutibile: il crimine più efferato non deve sospendere le garanzie, sacre e inviolabili, del diritto. |
- Pubblichiamo il racconto di Antonio Argentieri, apparso sul sito www.terramara.it, in cui denuncia un pestaggio subito da alcuni agenti del carcere di Arezzo nel 2004
- Pubblichiamo una serie di lettere inviate da detenuti a Radio carcere, trasmissione settimanale a cura di Riccardo Arena, su Radio Radicale
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