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Chi ricorda Katiuscia?
Valentina Calderone
“Mamma portami via da qui, ho paura. Sta succedendo qualcosa di strano” queste le ultime parole, sussurrate al telefono per non farsi sentire, di Katiuscia Favero alla madre Patrizia il 16 novembre 2005. Katiuscia morirà qualche ora dopo all'interno dell'Opg di Castiglione dello Stiviere, in provincia di Mantova. Pochi giorni e sarebbe tornata a casa. Aveva appena finito di scontare una pena nel carcere di Pontedecimo e si trovava lì perché all'atto della scarcerazione presentava “alterazioni psichiche tali da giustificare il trattenimento in un Opg”. Una storia difficile, la sua: l'incontro con il primo psichiatra a 13 anni per il percorso di disintossicazione dalla droga, la diagnosi di disturbo della personalità borderline, piccoli furti. Questo ha determinato lo svolgersi dei 32 anni della sua vita, trascorsa tra il carcere e gli Opg, nonostante, a detta dello psichiatra che la segue da sempre, l’inserimento nella vita familiare sarebbe stato la terapia più opportuna. Katiuscia, però, non ha avuto quella possibilità e nel 2002, sempre nell’Opg di Castiglione, denuncia di avere subito violenza sessuale da parte di un medico e due infermieri. Il giorno dopo il fatto, come per magia, i problemi psichici che l’avevano portata fuori dal carcere e dentro l’Opg sembrano svaniti; viene così dichiarata compatibile con il regime detentivo e nuovamente trasferita. Ma nel 2005, a fine pena, viene rimandata (con diagnosi opposta alla precedente) in quello stesso ospedale dove diceva di aver subito violenza. La logica di questa decisione risulta difficile da comprendere. Il medico e gli infermieri verranno assolti nel 2008, il certificato ginecologico che proverebbe le lesioni subite dalla giovane verrà smarrito. Oltre a questo, Katiuscia Favero riferisce particolari inquietanti riguardo la vita all’interno dell’Opg: veniva imbottita di farmaci che si rifiutava di prendere e che nascondeva per paura di ritorsioni, era sottoposta a contenzione frequentemente e per futili motivi (o perché mangiava delle caramelle o perché beveva bevande gassate). Di quale fosse il regime all’interno di quell’Opg si ha una testimonianza nelle parole del cappellano che, rivolgendosi alla madre, le dice: “Si rassegni signora, i ragazzi hanno paura a parlare. Tutti i casi sono sempre stati archiviati”. Il giorno successivo alla telefonata, così preoccupata e preoccupante della figlia, Patrizia chiama in ospedale per accertarsi delle sue condizioni. Una serie di risposte evasive: non c’è nessuno con cui parlare, provi più tardi. Verso le 12 l’ennesima telefonata, questa volta le rispondono: “Signora, sua figlia ha fatto una birichinata. Si è suicidata”. Patrizia si precipita, vuole vedere il corpo, deve urlare e piangere perché acconsentano. Le raccontano una dinamica del suicidio, alla quale non crederà mai: Katiuscia è stata trovata nel cortile dell’Opg, impiccata con un lenzuolo bagnato a una recinzione. Le consigliano di non richiedere l’autopsia, ma le cosa che non tornano sono davvero tante. Come ha fatto Katiuscia ad uscire, dato che l’accesso al giardino, di sera, è precluso a chi, come Katiuscia, non ha il pass per accedervi? Come ha fatto ad impiccarsi ad una recinzione bassa e per di più semi-cadente? Perché sul suo collo c’è il segno di un cordino, non compatibile con il mezzo (lenzuolo) che avrebbe usato per togliersi la vita? Perché ha una ferita dietro la testa? Perché ha i pantaloni sporchi d’erba e fango sulle cosce e sui glutei ma le suole delle sue scarpe non ne portano traccia? Il procedimento per omicidio è stato archiviato. Ma Patrizia e la figlia di Katiuscia, Juliana, rimasta orfana all’età di 14 anni, continuano ad attendere  risposte.
L’Unità 11 maggio 2010 
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il 7/2/2014


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Voltaire

 


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