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DETENZIONE: TEMPO PERSO, TEMPO RITROVATO
Il Laboratorio di scrittura di Rebibbia N.C. è un luogo che vuole dare un senso al tempo della detenzione attraverso la narrazione, e in una delle discussioni sull’utilità della scrittura in carcere è nato tra i frequentanti un confronto sul modo di vivere la detenzione: tempo perso o ritrovato? Da qui l’idea di organizzare un forum per discutere di pena, carcere e rieducazione, a cui è stato invitato il Magistrato di Sorveglianza, dott. Enrico della Ratta Rinaldi.
Si è svolto un confronto tra principi democratici e leggi, da una parte, e realtà delle nostre carceri, perlopiù assai lontana da quelle norme, dall’altra. In mezzo la speranza e l’impegno di chi aspira a un futuro migliore, ma anche l’amarezza e la sfiducia che ciò possa avvenire.
Questo forum è stato uno dei tanti momenti in cui il carcere si rivela un luogo da cui imparare a guardare i problemi e le contraddizioni della nostra società, a dispetto di chi lo vuole tenere isolato e nascosto.
Luciana Scarcia
(volontaria Ass. “A Roma Insieme”)


1) A COSA SERVE IL CARCERE

[Il carcere come lo conosciamo risponde a esigenze razionali? Corrisponde alle necessità di una democrazia?]

Della Ratta – Nel Diritto Penale gli scopi della pena – badate: pena non solo carcere, perché, come nella storia le punizioni hanno avuto forme diverse, così altre se ne potrebbero trovare – sono: la retribuzione (al reato deve corrispondere una pena, secondo un criterio di proporzionalità); la prevenzione generale (per dissuadere la gente dal delinquere); la prevenzione speciale (per ridurre il rischio che il condannato commetta reati dopo l’espiazione della pena); la neutralizzazione (per impedire la commissione di reati durante l’espiazione); l’emenda (per indurre la revisione del proprio modo di ragionare). Oggi si tende a riconoscere maggior credito alla funzione di prevenzione generale, piuttosto che di retribuzione, perché quest’ultima si basa su un’illusione di giustizia della pena, mentre la giurisprudenza moderna propende per una concezione della pena “necessaria” più che “giusta”.
La Costituzione (la Legge fondamentale dello Stato) impone al legislatore di uniformare le leggi penali alla rieducazione, principio che, fra le finalità che abbiamo visto, è riconducibile alla prevenzione speciale. Ad esempio, la Corte Costituzionale (l’organo che controlla la corrispondenza delle leggi ai principi costituzionali) ha ritenuto legittimo l’ergastolo, che secondo alcuni è in contrasto con quel principio, a condizione che sia prevista la possibilità di estinguere la pena in caso di ravvedimento del condannato, e ciò è effettivamente previsto dall’art. 176 c.p. (liberazione condizionale), che si può applicare anche alla pena dell’ergastolo.
Ora, soffermiamoci sulla pena che, in base alla funzione retributiva, prevede la detenzione per periodi di tempo diversi in luoghi reclusi dalla struttura sostanzialmente uguale. Perché, ad esempio, non sono stati concepiti spazi diversificati a seconda del condannato e del tempo da trascorrervi e, invece, si è scelta come unità di misura il tempo? In realtà, questa scelta si è determinata storicamente per motivi più tecnologici che razionali: il penitenziario, nel corso della storia, è risultato essere il luogo in cui si sono condensati modelli adottati in altri contesti istituzionali, come la caserma, la scuola, l’ospedale ecc.; rispondeva meglio cioè alle esigenze pratiche di custodia e massimo controllo. Lo “spazio” è stato considerato una dimensione fissa: celle uguali per tutti, con tempi da trascorrervi diseguali a seconda del reato. Quindi storicamente l’unità di misura privilegiata per applicare il criterio retributivo della pena è il tempo. Ma il tempo è anche connesso con la nostra interiorità, regola il rapporto dentro/fuori e ha la dimensione dell’irreversibilità, quindi la privazione del tempo va a toccare l’interiorità degli individui.

Tommaso – Visto questo discorso sul carcere, allora si potrebbero seguire dei criteri più logici, per esempio non sarebbe sbagliato applicare un principio di selezione: suddividere gli spazi in base all’età o ad altri criteri che rispettino le caratteristiche delle persone.

Antonio – La carcerazione significa pagare per un reato commesso e se vengo incarcerato vuol dire che sto pagando il mio debito con la società, però questo non dovrebbe significare che perdo il diritto a venire rispettato come essere umano. Invece quello che accade è che dentro il carcere diventi solo un caso giudiziario, un numero di matricola o una patologia, non sei più considerato una persona. Allora, mi chiedo, sono solo io ad avere dei doveri?

Francesco - Io so che in Europa ci sono modi diversi di applicare le pene, c’è una maggiore oggettività. Da noi invece è tutto più incerto, le cose vanno diversamente a seconda del giudice che uno ha, del carcere in cui viene rinchiuso, dell’educatore che ti segue e così via.

Della Ratta -  Il concetto di “debito con la società” rientra nel principio della retribuzione della pena, per cui il carcere viene visto come il prezzo per il reato commesso; la frase tipica che viene spesso pronunciata dal detenuto: “io ho pagato il mio debito” rivela un’adesione a quel principio e, in generale,  alla considerazione del carcere come qualcosa che riguarda la società non lui (aspetto che la concezione della retribuzione ha in comune con la prevenzione generale). È più utile invece, anche per rispettare il principio della finalità rieducativa della pena, spostare la riflessione su come funziona la pena – visto che la si deve applicare –, e su quali concreti effetti di prevenzione speciale essa abbia. Ma questo implica il superamento della visione solo retributiva della pena, anche perché la detenzione ha, per così dire, effetti collaterali molto seri e potenzialmente criminogeni: l’allontanamento dalle famiglie, la perdita di relazioni sociali ecc.
L’Italia, che ha un ordinamento molto avanzato, si dice che sia il Paese di Beccaria (che parlava di funzione di deterrenza delle pene, miti e certe, presupponendo la responsabilità individuale delle scelte) ma anche di Lombroso (secondo cui il delinquente è determinato socialmente e addirittura fisiologicamente). E oggi, anche qui in questa aula, continuano a confrontarsi due visioni della pena: quella dell’oggettività e quella della considerazione della persona.
Abbiamo parlato delle funzioni della pena per la società, ma c’è un’altra domanda importante: a cosa serve il carcere per il detenuto? Il carcere sottrae tempo, ma lo dà anche. Se siamo la storia di noi stessi, un senso dobbiamo trovarlo. Non esiste una contrapposizione netta: liberi o prigionieri; si può essere più o meno liberi fuori, così come più o meno consapevoli dentro. A che deve servire questo tempo?


2) RIEDUCAZIONE E REINSERIMENTO

[Il principio della rieducazione è praticabile? Che senso ha se il sistema sociale non è attrezzato al reinserimento? È possibile dare comunque un senso al tempo della detenzione?]

Michele – Io ho da scontare una pena di oltre 5 anni; la prima parte di questo tempo l’ho trascorso in un camerone affollato dove non era possibile fare niente, poi ho iniziato un mio percorso con lo yoga, le letture, la scrittura... Ora, se io divento capace di sfruttare il tempo per una mia crescita, questo dovrà pur essere riconosciuto, però questo nella realtà non avviene.

Raffaele - Quando si esce da qui le possibilità di reinserimento sono pochissime, giusto qualche cooperativa che ti dà un salario in genere insufficiente e precario. Allora come si fa a parlare di rieducazione dentro, se poi fuori non esistono le condizioni per una vita dignitosa?

Della Ratta – La partita che si gioca fuori nella società è certo la più grande, e a poco serve che lo Stato rimuova gli ostacoli che dentro impediscono una detenzione umana e una pena efficace, se fuori non si interviene adeguatamente. Resta il fatto però che, visto che qui si deve stare per un periodo di tempo, vale la pena questo tempo trascorrerlo nel modo migliore.
Rispetto al riconoscimento, il sistema penale per funzionare deve basarsi su sanzioni e riconoscimenti. Voglio insistere su questo concetto riportandovi una citazione dal Comento sopra la Divina Comedia di Giovanni Boccaccio, in cui per spiegare il buon funzionamento dello Stato si fa una similitudine: ogni repubblica, come ogni individuo, poggia su due piedi, il destro è quello che punisce, il sinistro premia; se uno dei due per negligenza o pigrizia non funziona, la repubblica va “sciancata”, se mancano tutti e due, la repubblica non cammina proprio.
Questo per dire che ogni giorno dovrebbero essere richieste e date prove di affidabilità e responsabilizzazione.

Massimo – A me non piace la parola “rieducazione”, tutt’al più parlerei di “educazione”, nel senso che il detenuto deve essere deputato a pensare; la rieducazione si fa con gli animali, Mao Tze Tung e Hitler praticavano la rieducazione. L’educazione, come sistema di premi e castighi, è qualcosa che si pratica nell’infanzia, ma quel processo finisce con l’età matura. 

Paolo – Io penso invece che l’educazione sia un processo che continua per tutta la vita e che il sistema di premi e castighi funzioni sempre, non solo con i bambini; se non si pensasse così significherebbe limitare le possibilità di miglioramento dell’uomo attraverso la conoscenza e il confronto. Però il carcere non funziona in questo modo. Diverso sarebbe se diventasse una sorta di S.p.A., dove si praticano lavori utili alla società, con dentro, per es., una serra, un panificio, ma anche un impianto per la costruzione di pannelli solari, cioè lavoro qualificato, che il detenuto, finita la pena, potrebbe conservare.

Della Ratta – Che vuol dire rieducazione? Che il carcere deve essere un luogo in cui la persona viene aiutata a fare scelte libere, perché il presupposto è che spesso si fanno reati perché non si riescono a trovare altre strade. Ma deve essere la persona a volerlo; non le si può dire: tu devi cambiare e trasformarti, né si tratta di insegnare a essere dei bravi detenuti (quello lo si può imparare subito e facilmente). Il carcere può servire, invece, a sviluppare un diverso rapporto con le norme e la società, a individuare un’altra strada, a dire: ci vuoi provare?
Il lavoro e lo studio sono importanti strumenti di educazione, per questo è grave che non ci siano opportunità di lavoro per tutti. Nelle carceri tedesche, invece, i detenuti possono, tutti, lavorare, e questo significa poter mantenere le famiglie, avere un ruolo…


3) UN CARCERE DA RIFORMARE O SUPERARE ?

[È possibile riformare il carcere? Perché è così difficile praticare strade alternative?]

Francesco – Ma, visto che le cose non funzionano, perché non si praticano strade diverse dal carcere per eseguire la pena?

Federico - Ci sono delle proposte concrete di alternativa al carcere o di un carcere diverso?

Della Ratta – Bisognerebbe considerare il carcere un’extrema ratio; oggi circolano proposte interessanti che vanno nella direzione di rompere la marcata separazione dalla società che rende questo luogo chiuso al mondo. Sicuramente non è un momento storico favorevole, se non vengono praticate strade possibili ciò è dovuto a tanti fattori: a un dibattito politico condizionato dalla demagogia, alla mancanza di un movimento costruttivo, all’esistenza di opinioni diverse…

Luciana - Voglio fare una provocazione al Magistrato: se è così difficile cambiare le cose, non è una pretesa eccessiva quella di chiedere al singolo detenuto, che viene da percorsi di vita perlomeno difficili, di attivarsi nel suo processo di reinserimento?

Della Ratta – È vero, è eccessivo chiedere al detenuto di dare un senso alla detenzione, eppure alcuni lo fanno, si organizzano… La storia è piena di esempi di cose che sembravano impossibili e poi sono state fatte, pensate al voto alle donne: era troppo chiedere alle singole donne di impegnarsi per raggiungere una meta allora lontanissima, eppure lo hanno fatto. Ciascuno di noi è parte di qualcosa di più grande e se oggi noi qui abbiamo contribuito a rendere un po’ più ricco questo corso, vuol dire che questo granello va a far parte di una sabbia più grande che è quella della trasformazione del carcere. Io sono convinto che esista un parallelo tra la vita dell’individuo e quella della storia e può darsi che un giorno si guarderà al carcere così come noi oggi guardiamo al Medio Evo.

Antonio - E se poi accade che l’individuo si trasforma ed evolve, mentre la struttura no?

Luciana – Allora voglio fare una provocazione anche a voi detenuti: siete sicuri di fare tutto il possibile per esercitare i vostri diritti?

Federico – Quando si trascorrono dentro periodi lunghi, diventa una necessità dare un senso al nostro tempo, è necessario crederci, altrimenti mancano le basi per sopravvivere. Qui, certo, io vorrei il riconoscimento di “premi”. Non lo fanno? Pazienza, io devo per forza andare avanti….

Giosuè – … però il cambiamento dovrebbe essere da entrambe le parti. Come si deve sentire uno qua dentro, quando basta accendere la tv per sentire parlare di reati e corruzione di chi comanda? Le espressioni di dissenso non bastano, chi sta al potere se ne frega. Nella storia solo le rivoluzioni hanno cambiato lo stato delle cose.

Della Ratta – Nella storia non sono stati i massacri ad aver cambiato le cose. Anche le rivoluzioni sono state strumentalizzate, dopo la rivoluzione francese c’è stato l’impero napoleonico. Se non cambia il modo di pensare della gente, la cultura, non sarà il sangue a farlo. Vi porto l’esempio del movimento dei disoccupati organizzati a Napoli qualche anno fa: stanchi di aspettare, si misero a fare del lavoro volontario negli ospedali; questo sortì l’effetto che alcuni posti di lavoro furono effettivamente trovati; poi l’intromissione della logica degli schieramenti politici vanificò la carica positiva di questo movimento. Con l’uso della forza fisica si finisce per parlare di scontri, vittime e aggressori e per nascondere la sostanza dei problemi.

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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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