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Punk è morto?

Jose Ignorant

 

È un luogo lontano e sperduto nella mia memoria, eppure lo riconosco in un istante, l'ingresso del palazzo in cui vivevo con la mia famiglia quando avevo circa otto anni, impossibile dimenticare uno degli ambienti in cui ho trascorso ore della mia infanzia giocando, lo stesso posto dove hanno cercato di violentare la maggiore delle mie tre sorelle senza fortunatamente riuscirci. In quell'androne di cemento grigio tutto mi è familiare, ogni cosa, tranne il volto che ho di fronte, ma basta un attimo e afferro anche quello. La mia professoressa di lettere della terza media mi sta guardando negli occhi e ho l'impressione che tra pochi secondi ci stringeremo in un profondo e appassionato bacio.

La professoressa Parri è stata uno dei primi amori platonici della mia adolescenza. Fiera sessantottina, divorziata, rossa la spilla sul suo storico loden, rossa la sua ammaccata Fiat uno, rossa lei, fino al midollo. Né alta né magra né bella, eppure pendevo dalle sue labbra ogni qualvolta i suoi tutt'altro che pacifici ricordi di gioventù colorivano le altrimenti monocromatiche lezioni. Amava parlare con noi e sapeva come infiammare i cuori, se non altro il mio. Devo a lei la conoscenza di tanti autori, ma non smetterò mai di cantare le sue lodi per avermi introdotto a quella di Baudelaire.

Voglio questo bacio, credo di averlo sempre intimamente voluto, chiudo gli occhi, l'impatto è imminente. Bagnato, appiccicoso, caldo, intrusivo. Troppo bagnato, troppo appiccicoso, troppo caldo e decisamente troppo intrusivo. Apro un occhio per sbirciare e comincio a ricevere un audio sconnesso di latrati e il tartufo nero di BB che per poco non mi centra la pupilla, mentre la sua ruvida lingua mi pennella il resto del viso. Sono supino, quindi non riesco a vedere Sid ma lo sento guaire davanti alla porta, seduto.

«Cazzo, la pipì, è mattina!». Ce la posso fare, sono solo cinque metri l'abisso tra la coperta e la maniglia. Strizzo gli occhi per tergiversare, se aprissi la bocca per dare il tanto agognato segno di vita sarei costretto a un'abbondante colazione di bava santa di cucciola. Liz ovviamente dorme, tocca a me, come sempre al mattino. La prima pipì è la mia, mi fa sentire importante, indispensabile. Apro la porta ed è l' alba. Un tenue e pacifico rosa domina imponente i tetti della Teneria Franco-Espanola, casa mia, la mia T.A.Z. (temporary autonomy zone).

Vago senza meta seguendo la rotta tracciata dall'olfatto dei miei cani per le vie che collegano tutti i capannoni di questa fabbrica tessile che un tempo dava da mangiare a qualche migliaio di formiche operose e ora sembra una cittadina devastata dalle deflagrazioni di decenni di abbandono. Sparsi qua e là piccoli insediamenti di camion camperizzati colorano il grigiore dei prefabbricati, in lontananza, minacciosa, la ciminiera diroccata, dove dal comignolo sventola una bandiera nera, sputa un denso fumo nero di copertoni: il nostro messaggio a chi, da qualche tempo, si sta chiedendo cosa diavolo succede qui dentro.

Siamo vivi. La Teneria è tornata a respirare non più come luogo di sfruttamento del regime franchista, ma come un verde pascolo che accoglie un branco di pecore nere scappate o emarginate dai rispettivi bianchi greggi di origine. Siamo vivi. Un manipolo di sopravvissuti asserragliati in una fortezza, intenti ad accudire il germoglio della rinascita di una vita libera, difendiamo i nostri confini dalla realtà di un mondo che, se lo guardi bene, è soltanto un cimitero. Combattiamo una guerra mai esplicitamente dichiarata dal nostro nemico, tuttavia tangibile. Spesso nel cuore della notte falangi armate del loro cadaverico esercito tentano di espugnarci, ma si infrangono sulle nostre barricate. Sono vetro contro acciaio e, come neve al sole, si dileguano col venire del giorno. Oggi no, stanotte abbiamo organizzato un concerto punk ed eravamo in tanti, troppi per i codardi che sono loro.

È una mattina tranquilla e spensierata, il sound continua a sparare brani dei Crass, mentre qualcuno riprende le forze disperse ballando, dormendo supino su un materasso di lattine di birra vuotate nella notte e accatastate dal passaggio ubriaco degli ospiti. Anche i cani che abitano qui con noi proteggono la loro casa, pattugliando le strade in formazione si avvicinano minacciosi a ogni estraneo, non so come possano essere così precisi, ma noi tutti riponiamo nei nostri fidi compagni la massima fiducia poiché non c'è sbirro in borghese o malintenzionato che sfugga al loro olfatto infallibile. Sono fieri del loro compito e lo svolgono con dedizione, tutti insieme, tanto da abbandonare quasi totalmente le inutili faide che li portavano a sanguinose risse per un metro di terra.

Camminando verso la base della ciminiera, l'agorà della nostra cittadina, incontro un bar da campo, allestito per l'occasione, con tanto di insegna al neon luminosa strappata chissà dove. I baristi avranno sì e no dieci denti in due, sono inglesi e nel loro tipico spanglish mi invitano a consumare insieme la colazione dei campioni: una riga di ketamina e speed con caffè amaro e un cestello da sei birre doppio malto take-away. Sono due artisti fantastici, creano e modificano capi d'abbigliamento con scampoli riciclati dalla spazzatura. Il loro è stato uno dei primi laboratori inaugurati qui dentro insieme al mio studio di tatuaggi. Stamattina sfoggio con orgoglio una delle loro t-shirt serigrafate a mano con la scritta "crack smoker - granny arse fucker" (fumatore di crack - scopatore in culo di vecchiette), me la sfilo e gliela sventolo trionfante in faccia abbozzando un ameno balletto, la loro immagine comincia a sgranarsi nei miei occhi, segno che le droghe cominciano a fare effetto. I due, a cui la botta non è mai scesa da ieri notte, mi spiegano per la centesima volta che la mia maglietta è un pezzo unico, ideata per una clientela omosessuale come loro, ma quello slogan si sposa perfettamente con la mia realtà di fumatore di crack la cui donna ha cinquant'anni. Li abbraccio ciondolando e torno alla mia passeggiata mattutina trascinandomi dietro le sei cartucce di birra fresca.

BB e Sid mi hanno abbandonato per andare ad aggiungersi ai loro simili. Il resto della strada per giungere alla piazza, dove ieri abbiamo montato il palco e l'amplificazione, lo percorro in una bolla di sapone, fluttuando sospinto dalle anfetamine in circolo sono richiamato, come un pesce all'amo, dalla voce di Joey Ramone che intona We're a happy family. Incrocio il passo di tanti che, dopo la loro notte brava, si avviano all'uscita. Mi salutano allegri, qualche ragazza mi guarda con desiderio, non mi ricordo di nessuno di loro, corpi, solo corpi. Ricambio i saluti, specialmente le occhiate delle pupe tristi di andare via. Sembriamo animali della stessa razza, eppure il solco che c'è fra noi è il medesimo che ci separa dal nostro nemico. Sono venuti, magari col macchinone del papà per spendere la loro paga al ballo nel castello, a mescolarsi con le persone a cui agognano assomigliare ma, come Cenerentola, son costretti a scappare via per tornare nel loro mondo a produrre e crepare come gli altri. Non sono sbirri e finché verranno a sperperare qui ciò che producono, magari evitando di crepare sul nostro suolo per l'uso inconsapevole di qualche sostanza, saranno sempre i benvenuti, come chiunque non rivesta le sporche divise del potere, a prescindere dalla capsula esteriore che mostra, all'ingresso, come facciata. Alcuni di loro passeranno la linea di confine per unirsi a noi, chi lo sa, ma la stragrande maggioranza si darà una ripulita e, come da copione uniforme per tutti, faranno il loro ingresso nella "società civile", immediatamente perdonati per il ritardo e accolti con gioia dalla massa fangosa che andranno a rimpolpare.

Loro vanno, io resto. Non c'è niente fuori di qui che non abbia già visto e di certo niente a cui voglia dare il mio consenso.

 

Una decina di anni fa ero convinto che rompersi la testa contro il muro del sistema fosse giusto e doveroso, ma se mi volto a guardare, ciò che vedo mi convince che, nonostante i miei sforzi per fare una breccia, il muro è ancora lì, ancora più spesso, ancor più alto, solo la mia fronte mostra un memoriale di cicatrici. Come un sasso gettato nell'acqua produce una reazione di cerchi concentrici che si propagano via via sempre più ampi, così anch'io ho costruito la mia personale strategia di guerra, partendo dalla più elementare e pacifica metamorfosi della mia persona. Smontare mattone dopo mattone il fortino costruito dalla rigida educazione di un padre militare, a cui fin da bambino mi ero ribellato, è stato rapido come veder crollare un sontuoso castello di carte per un alito leggero. Non ho avuto la possibilità di crescere avendo uno scambio di opinioni, scambio in cui le teorie delle parti vengono ascoltate senza pregiudizi, in rispettoso silenzio. Da piccolo non avevo il diritto di parlare ma solo il dovere di fare ciò che mi veniva intimato di fare. Rosso in viso, le giugulari in rilevo per la pressione sanguigna fuori controllo, le spalle al muro come alla ricerca di una base indistruttibile da cui partire, ho strappato, un centimetro alla volta, territorio al mio nemico ideologico, vomitandogli addosso i miei pensieri, come un isterico, un ossesso, coprendo la voce di chi voleva obbligarmi a cambiare. Se è vero che il fine giustifica i mezzi, è altresì vero che avevo raggiunto il mio scopo, stavo scolpendo il blocco di marmo secondo i miei soli canoni di bellezza, anche se il rovescio della medaglia fu la cura consigliata dal medico di famiglia che mi aveva classificato come bambino affetto da SDDA (Sindrome da disturbo dell'attenzione o Iperattività infantile). Agli albori della scoperta di questa presunta sindrome, che collimano perfettamente con i miei anni di piombo, si tendeva a reprimere le più o meno stravaganti esuberanze dei malati con l'uso massiccio di psicofarmaci e del pugno di ferro, pur di non rendersi conto del perché alcuni bambini sono indotti ad assumere quell'atteggiamento.

Il forte senso di ingiustizia che provavo verso tutto ciò che mi circondava ha fatto sì che reagissi sempre mettendo in pratica l'esatto contrario di quello che da me ci si aspettava. Non sempre perché fosse giusto, come allora mi convincevo con facilità, l'essenziale era creare il caos, incendiare la paglia della tranquillità. Quando, a un banco del liceo, mi sono accorto del potere che la politica esercita sulla vita delle persone, ho deciso di esteriorizzare il mio dissenso aderendo alla sub-cultura più emarginata dalla società. È stato così che i miei capelli lunghi,  simbolo fino a quel giorno, insieme all'esuberanza, dello scisma dal padre generale, sono stati rasati per cedere il posto a una cresta, icona del nuovo target su cui indirizzare le mie frecce: il sistema. Da quel momento la diatriba con la mia famiglia, che per anni mi aveva formato e saziato, è mutata in una vampiresca sete di sangue contro tutti i vessilli del falso moralismo e dell'ingiustizia sociale. Punk anarchico, ateo e agnostico, vegetariano e animalista attivo, portavoce del dissenso.

Protetto da una corazza di borchie sono partito dalle occupazioni scolastiche, passato per la propaganda di materiale sovversivo e la partecipazione ad azioni di guerriglia urbana contro polizia, neofascisti, multinazionali e loro sedi sparse in tutta Europa, approdato alla liberazione di animali ingiustamente e atrocemente sfruttati e molestati, con l'unico vero gruppo nato e sviluppatosi senza copiose sovvenzioni di qualche ricco frikkettone: l'A.L.F. (Animal liberation front). Questa corsa estenuante, ostacolata solo da qualche burrascoso fermo della Digos, ha trovato il suo traguardo nel G8 di Genova. La morte di Carlo Giuliani, da molti vista come l'ennesimo abuso di potere delle forze armate, specialmente negli ambienti dei centri sociali e negli atenei anarchici, è stata vissuta da me come l'incipit di uno strappo dai movimenti di lotta che fino a quel giorno avevo spalleggiato. Non riuscivo a vedere un abuso nell'uccisione avvenuta, ai miei occhi Carlo è stato un caduto in battaglia, consapevole come me della non remota possibilità che questo avvenisse e che non per questo il mondo avrebbe invertito la rotta verso il collasso. Negli anni avevo perso nella lotta un gran numero di amici veri, Carlo non lo conoscevo nemmeno di vista, eppure la sua morte è stata per me un interrogativo sul fine delle mie azioni. Era giusto perdere la vita per cambiare un mondo a cui non ho mai voluto appartenere? Sarei mai riuscito a cambiare il cuore degli uomini per fargli provare ciò che per me era così semplice provare, o avrei dovuto sterminarli tutti per pulire l'albero della vita dalle mele marce? La risposta a questi interrogativi è stata suffragata da un'altra domanda: Non è forse questo il medesimo meccanismo che adotta il sistema per reprimere la minoranza a cui appartengo?

L'applicazione dei miei ideali faceva acqua da tutte le parti, in fondo il mio unico desiderio era di vivere in una società pacifica, libero da ogni tipo di costrizione e, se se ne fosse presentata l'occasione, combattere e morire per difenderla. Una spessa nube di confusione mi ottenebrava la mente perché in fondo sono sempre stato convinto di essere nella ragione ed è per questo, e per la mia testardaggine, che ho avuto la fortuna e il buon senso di non mollare, ho trovato il modo di canalizzare tutto il mio disprezzo nella rinascita, facendo sì che i miei ideali divenissero concreti. Questo mi ha spinto ad appropriarmi dell'altrui proprietà, abbandonata, dimenticata e spesso pericolante, in cui ricostruire la vita secondo i valori di una vera società civile, che permetta a ognuno di sviluppare la propria strada senza per questo subire la discriminazione da parte dei suoi stessi simili. Chi mai può dettare le regole senza calpestare la libertà?

Già, libertà. In nome di questa piccola parola, tre sillabe di incalcolabile significato, durante il corso della mia vita sono stato posto di fronte a innumerevoli bivi, bruschi e improvvisi cambi di direzione, dapprima apparentemente senza senso, in seguito, in una visione generale del mio percorso così contorto e irregolare, ho scoperto il fulcro della mia coerenza, appunto, la libertà.

Qualche anno fa vivevo nella città di Praga, in una T.A.Z. enorme, una base militare in disuso a pochi chilometri dalla metropoli, tanta gente di ogni nazionalità, affinità e diversità a confronto in un sito pieno di vita. Era bellissimo, nulla poteva presagire che da quell'isola felice sarebbe iniziato un tragico calvario. La mia compagna aspettava un bimbo e l'idea di diventare padre mi elettrizzava, tutti si congratulavano con me e questo, anziché rendermi nervoso, mi riempiva di fierezza. La T.A.Z. brulicava di piccoli punk che giocavano senza sosta: un centro di ripopolamento della nostra specie protetta. Superato il terzo mese di gravidanza già cominciavo a cercare del buon legno per costruire la mia prima culla con l'aiuto di altri volenterosi papà, quando all'improvviso, per un aborto spontaneo, il mio sogno, come un palloncino troppo pieno d'acqua, esplose facendo disperdere tutte le emozioni che conteneva nell'oblio della depressione. Non riuscendo più a incrociare gli amorevoli sguardi delle persone care che si avvicendavano nel tentativo di sostenerci, una notte, come un ladro, avviai il motore del camion con le lacrime che mi rigavano il viso e, protetto dall'oscurità, presi la strada per l'Italia col mio carico di rabbia e vergogna.

Giunto a Roma, la città della mia adolescenza, tra le vecchie conoscenze ne feci una nuova: l'eroina. Sapevo fin troppo bene quello che mi aspettava quando decisi di piantarmi l'ago nella vena, saltando a piè pari una per me inutile graduale presentazione alla Morte. Desideravo solo scomparire e quello era il modo a me più congeniale, in quanto già tossicomane di tutto il resto; anche se fino a quel giorno non avevo mai avuto e voluto un'esperienza diretta con l'eroina, avevo visto così tante vite spezzate tra le file dei miei compagni da associarla naturalmente alla parola fine. Dolce, tragica fine. La mia testa era sprofondata nell'oscuro oceano che è il limbo della tossicodipendenza da oppiacei, volutamente era spinta e trattenuta sott'acqua dalla mia stessa mano. Avevo ormai buttato via la chiave della cella che mi ero costruito attorno, quando sopraggiunse il più insolito dei liberatori: il carcere.

Fu grazie alla reclusione forzata che ripresi le redini del mio controllo, grazie all'odio per la mia condizione di detenuto scoprii che la linfa della libertà non si era prosciugata dentro di me. Il distacco dall'eroina, a cui ero stato costretto, fu come acqua fresca rinvigorente per le mie radici, in nessun altro modo avrei potuto fuggire a quel mortale abbraccio.

Come risvegliatomi da un coma profondo, riuscii ad attuare il piano di fuga dalla comunità terapeutica nella quale, dopo un anno di carcere, avevo dovuto attendere altrettanto prima di espatriare senza troppi rischi alla volta di Barcellona, atteso da un folto gruppo di amici nella mia nuova condizione di latitante.

 

Assorto in questi pensieri, finalmente arrivo nello spiazzo antistante la ciminiera, dove ieri sera abbiamo montato il palco per la festa, e resto imbambolato a godermi l'armonia della visione che mi si para davanti. Ci saranno ancora un centinaio di persone tra cui noi condomini, i musicisti delle band accorse per la serata, abitanti delle altre occupazioni di Barcellona, venuti per vendere i loro manufatti e darci manforte. Il palco ha smesso di ruggire ma la musica della consolle di casa accompagna le danze e le chiacchiere dei superstiti. Qualcuno ride, altri giocano, altri ancora si amano: regna la pace. Sono l'unico a esser solo, in disparte, a contemplare ciò che per me è una tanto sudata conquista, quando una sensuale carezza, che subito riconosco, mi sfiora il sedere. In un attimo sono tutt'uno con le labbra della mia compagna che, svegliandosi senza trovarmi, ha preparato una brocca di tè col latte (Dio salvi la regina!), preso la mia valigetta dei dischi e, sicura di dove fossi, mi ha raggiunto con BB e Sid al seguito in atteggiamento festoso. Mano nella mano attraversiamo la folla che si apre al nostro passaggio, tra i baci e le battute del gruppo sfiliamo nel nostro trionfo. Siamo un'allegra famiglia felice.

Bert, l'austriaco intento a mixare il suono, mi accoglie tirando su il dito medio e tutto d'un tratto mi ricordo quando, nel cuore della scorsa notte, surriscaldato dall'alcool, l'avevo supplicato di concedermi il cambio per un'oretta per poter svolgere il mio primordiale ruolo di marito. Saranno trascorse una decina di ore, poverino. Mi inginocchio al suo cospetto porgendogli cinque delle sei bionde che, da quando mi sono state gentilmente donate, non ho mai abbandonato; sfoggio il mio sorriso migliore, io stesso non saprei resistermi. Ho assistito a tante scene strane nella mia vita ma mai ho visto un punk, per di più nord-europeo, rifiutare una birra, cinque poi!

Sposto l'interruttore delle cuffie sul piatto libero e tiro fuori dalla valigetta un vecchio disco dei Buzzcocks. La puntina intarsia Love u more, qualche decibel in più e sarà perfetto. Cinto dalle braccia di Liz alzo gli occhi sul pubblico che leva le lattine cantando in un unico grande brindisi al nuovo dj.

Questo sono io, questa è la mia gente, non ho mai desiderato altro nella mia vita, sono felice.

 

Tre mesi dopo quel memorabile giorno sono su una nave in rotta per il porto di Civitavecchia, in tasca documenti falsi per non essere trattenuto dalla Guardia di Finanza al mio arrivo, destinazione del mio viaggio: il carcere di Rebibbia.

Non so cosa mi ha spinto a farlo, ma sono fuggito di nuovo.

Liz mi aveva lasciato e avevo ritrovato la mia vecchia amica, la Morte. Per gli ultimi due giorni mi ero bucato senza sosta ma, non contento del risultato, in un raptus di lucidità mi ero ricamato sui polsi qualche linea con un taglierino. Quando mi fui ripreso trovai i due inglesi che piangevano seduti accanto a me, vegliando il mio corpo sanguinante. Gli chiesi ago e filo, mi diedi qualche punto per ridurre la larghezza dei tagli mentre ricevevo parole dolci dai miei due biondi angeli custodi alternativi.

Stavolta ho deciso di tornare indietro, verso quel luogo di cemento e ferro in cui avevo riscoperto in passato di desiderare ancora la libertà e verso il quale ero ancora in debito per la mia evasione.

"Terra!" gridano marinai e passeggeri di ogni tempo e si felicitano gli uni con gli altri nello scorgere la sottile striscia scura che macchia la perfezione dell'orizzonte, che si parta o che si torni a casa, quello è comunque un momento gioioso. Qualcuno scatta la foto artistica che occuperà l'ultima pagina dell'album delle vacanze. Vedo l'Italia sempre più pericolosamente vicina, sento la sua pesante incombenza sulla mia schiena, penso a Papillon, ai detenuti francesi a un tiro di schioppo dal bagno penale, intrappolati in gabbie galleggianti, ammassati come bestiame e soli coi loro gravosi pensieri, senza via di fuga, intorno a loro gli infami traghettatori gridano: "Terra!".

La pelle è ancora umida per la doccia che ho appena finito di fare, allagando il bagno degli handicappati, per allontanare ogni traccia dal fiuto dei cani della finanza tra i quali sarò costretto a passare. Accendo il telefono e mentre compongo il numero di mio padre il vento del ponte di prua mi innesca un brivido umido sulla schiena. Niente da fare, non ho vestiti pesanti puliti per l'occasione, è maggio e a Barcellona già da qualche settimana si andava al mare.

«Gio'?». «Pa', sono quasi arrivato. Solo una cosa: mettetevi subito dopo i finanzieri e appena mi vedete arrivare chiamatemi e gesticolate, fatevi vedere. Chiamatemi Marco».

La nave attracca al molo, i miei primi passi sul suolo italiano sono pesanti come piombo.      Vorrei sentire ancora le braccia di Liz cingermi il ventre, vorrei che la droga non mi avesse condotto ancora  alla follia, vorrei non essermi tagliato le vene nell'assurdo tentativo di dimostrarle, attraverso la mia morte, che senza di lei nulla aveva più senso, infinite sono le cose che vorrei, solo non vorrei essere qui, a un passo da dieci finanzieri e due cani antidroga con una carta d'identità falsa recante il nome di un mio vecchio compagno di scuola, al crepuscolo della mia ultima notte di latitanza. Quante volte davanti a quegli stessi finanzieri sono passato fischiettando con le valigie cariche di ogni illegale ben di dio, la mente fredda rivolta solo al pensiero del lauto compenso non appena svoltato l'angolo e ora, quando il peggio che può capitarmi è di venire imprigionato a Civitavecchia piuttosto che a Rebibbia, ho l'impressione che sulla mia testa ci sia un cartello con scritto "fermatemi!".

Ok Marco, è il momento di andare, ma dove cazzo sono i miei genitori? Fanculo, o la va....

«Marco! Marco, siamo qui!». In un attimo accade tutto, porgo il documento allo sbirro e con la stessa mano do una carezza al pelo lucente del pastore tedesco che mi osserva con aria sorniona, non sarà mai un cane a tradirmi, tra animali ci intendiamo. «Ciao mamma!». Il finanziere mi guarda indispettito dal mio aspetto trasandato, ma i miei occhi sono per mia madre e li giro solo dopo aver sentito la parola magica: "Tenga".

Il viaggio verso casa è governato da un silenzio tombale, interrotto da qualche telefonata in cui rassicuro i miei compagni di esser passato ai controlli, la tensione di mio padre al volante è ben visibile, il volto di un militare settantenne al suo primo reato! Anche a casa la scena non varia di molto, ancora una volta il racconto degli ultimi capitoli della mia storia e il loro silenzio di raccapriccio. Non hanno mai appoggiato le mie scelte ma ormai, forse per disperazione, hanno imparato ad accettarmi come uomo, la distanza è stata il mastice del nostro rapporto. Posso ben capire. La cena è squisita, la mamma è sempre la numero uno tra i fornelli e stare seduto tra di loro, al centro dell'amore, mi rende sereno nonostante l'ora della resa incomba su di me. Un paio di bicchieri con mio padre e l'idea di una cella è già scomparsa dalla mia testa, la serata si conclude con una reciproca mostra fotografica degli avvenimenti che ci siamo persi. Quando poso il fondoschiena sul divanoletto del salone, preparato di volata da mia madre con lenzuola fresche di bucato, forse per il vino, forse per le diciotto ore di nave, crollo senza il tempo di accendere il cervello.

Ore dopo, è buio tutt'intorno, neanche dai buchi delle persiane riesco a scorgere uno spiraglio di luce che mi annunci l'arrivo del giorno in cui ho deciso di chinare il capo al mio destino. La fronte madida di sudore, il respiro che brucia nei polmoni, l'ansia, ho paura, resto immobile sotto le coperte a sbirciare il buio pieno di mostri e in fondo spero che non arrivi mai la luce dell'alba per scacciarli via. So che da solo non posso farcela, da solo ho compiuto la mia parte, la mia scelta e ora, come la mano di chi innesca un suicidio assistito, necessito della pace di mio padre, della sua illusione nella giustizia, per concludere il ciclo. Sono così debole e sottomesso da accettare qualsiasi stronzata mi faccia sentire coerente con la decisione che ho preso. Gio' non si è mai mosso da Barcellona, Marco ha preso quella nave e ora sta per consegnarsi al carcere di Rebibbia. Lui, non io.

Un rumore metallico mi strappa via dalle elucubrazioni della mente, giro il capo verso quella che credo sia la provenienza di una nuova allucinazione, ma è solo mia madre che controlla se ci sono ancora.

« Gio', sei già sveglio?».

« Credo di sì, anzi, ora che sei arrivata tu ne sono sicuro. Sto di merda».

«Vieni in cucina che papà ti vuole chiedere una cosa».

Come una fune calata quando sei sul fondo del pozzo mi aggrappo alle parole di mia madre e scatto in piedi, esco dalla fucina dei mostri chiudendomi la porta alle spalle per esser sicuro che non mi seguano.

L'orologio di ceramica della cucina segna le cinque e un quarto, mio padre è in vestaglia con i gomiti sul tavolo e i pugni chiusi sotto il mento a sorreggersi la testa, anche se negli ultimi cinque anni l'avrò visto un paio di volte, e prima ancor meno, l'espressione del suo viso mi è aliena. Sembra felice, felice di me. Mia madre, di spalle, gira il cucchiaino in una tazzina di caffè fumante, ascolta attenta. Credo non abbiano affatto dormito stanotte, magari per farmi la guardia, magari li ho sconvolti con la mia decisione di tornare sui miei passi.

«Gio', stasera c'è Roma-Juve e visto che tua madre mi lascia sempre solo in cucina quando c'è la partita, se vuoi la vediamo insieme».

Queste parole hanno più senso di ventinove anni di furiosi litigi per giungere sempre al nulla, c'è dentro tutto quello che cerco, ciò di cui ho bisogno.

«Papà è inutile che la vediamo, tanto lo so già che perderete sicuro, ma se proprio insisti resto... solo per dimostrarti che i tempi della "vecchia signora" sono finiti».

Ancora un giorno e una notte di libertà, ventiquattro ore da trascorrere in maniera diversa dal resto della mia vita, millequattrocentoquaranta minuti per correre più che posso verso il punto di incontro posto a metà strada da mio padre, così, semplicemente. È strano, mi sento a disagio, non all'altezza di manifestare il ruolo di figlio, un ruolo che ho dimenticato, che ho lottato per dimenticare o forse, più semplicemente, non ho mai rivestito e che ora torna a stravolgere la mia conquistata quiete. Di nuovo navigo nei miei pensieri, sembra che la mia vita sia un'eterna riflessione, che qualcuno giuochi col telecomando e, pigiando il tasto che ferma l'immagine, mi imponga il confronto col mio ego.

«Dai Gio' vatti a lavare, che usciamo a comprare qualcosa senza buchi da metterti addosso».

Usciamo? Ma come ‘usciamo', io e mio padre in giro da soli a fare compere? Io latitante e mio padre generale in pace, a zonzo, come se nulla fosse: incredibile!

«Si papà, però solo un paio di scarpe e qualche paia di mutande, lo sai che ci tengo ai miei stracci».

Mi guarda, sorride, i capelli bianchi riflettono di un pallido celeste la luce del mattino. È invecchiato mio padre, con lo stesso effetto del vino è migliorato, forse è per questo che le sue parole, ora, hanno un sapore così intenso e pregiato, non provocano più quell'acida, acerba intrusione che mi ha sempre suggerito di alzare prima lo scudo e subito dopo la spada per contrattaccare. Come se l'avesse progettato da tempo, il giorno in cui due uomini depongono le ormai obsolete armi, il giorno della resa, è perfetto. Non ci sono tonnellate di parole inutili a rivangare il passato o immaginare il futuro, c'è l'oggi, il noi, le compere, la pizza con la birra, la partita, non serve altro che non sia la semplicità di un rapporto che non abbiamo mai avuto, spingendoci a chiederci per una vita come sarebbe stato. E sarebbe stato bello. Ci lasciamo solo quando, il mattino seguente, su via Raffaele Majetti compare nel suo imponente squallore la porta carraia del carcere.

«Non c'è bisogno che venga anch'io fin dentro. Coraggio, butta quella birra e asciugati le lacrime».

La stessa scena che davanti a una stazione ferroviaria o in un aeroporto è un cliché di mille pellicole e, perché no, della mia vita passata, acquista tutt'altro significato se sullo sfondo spiccano i casermoni grigi e le torrette di guardia sulle alte mura del penitenziario. Solo che stavolta non è un addio, so che ci rivedremo presto.

«Ciao papà».

 

È quasi passato un anno e sono ancora qui dentro, penso tutti i giorni alla mia gente, alla mia casa. Tutto mi manca, eppure dentro di me so di aver fatto la scelta giusta: ho scelto la libertà ancora una volta, la libertà attraverso la reclusione, e sono vivo.

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a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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