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Troppe tragedie senza una ragione
Corrado Stajano
Se almeno l’amaro destino di tanti, innocenti o colpevoli, impigliati nelle reti della giustizia, che hanno perso la vita nelle celle delle prigioni, nei riformatori, nelle questure, nelle caserme poliziesche, negli ospedali psichiatrici giudiziari, per responsabilità di coloro che avrebbero dovuto averne cura, fosse servito a impedire altre morti, violenza, sangue e dolore! Non è accaduto. Sarebbero 1.736 le persone morte in carcere in Italia nell’ultimo decennio, di cui più di un terzo suicide. Luigi Manconi e Valentina Calderone hanno scritto un libro importante, grave, che fa rabbrividire per quel che racconta, Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri (Il Saggiatore, pp. 243, € 19), con una prefazione di Gustavo Zagrebelsky. Chissà che venga letto da chi ha responsabilità nell’amministrazione della giustizia e ha conservato sentimenti di umanità e che serva a inquietare un’opinione pubblica distratta e dimentica. Luigi Manconi, sociologo, politico, senatore della Repubblica in più legislature, presidente dell’associazione «A buon diritto» , e Valentina Calderone, laureata in Economia, ricercatrice, scrivendo questo libro hanno scoperchiato una pentola velenosa. Il saggio racconta fatti in cui uomini dello Stato violarono la legge, di alcuni dei quali si è molto parlato — Giuseppe Pinelli (1969), Franco Serantini (1972)— e altri che hanno suscitato aspre polemiche: le violenze della scuola Diaz e di Bolzaneto, a Genova (2001); la sorte di Federico Aldrovandi (2005), diciottenne ammazzato in una strada di Ferrara con selvaggia violenza — 54 lesioni sul suo corpo martoriato — da quattro agenti di polizia condannati in primo grado due anni fa, ora in appello. Racconta di altre vicende sconosciute o quasi, rimaste per lo più senza giustizia: Marcello Lonzi (2003), morto nel carcere delle Sughere, Livorno, per «forte infarto» ; Katiuscia Favero, morta all’ospedale giudiziario di Castiglione delle Stiviere, il collo dentro un cappio ricavato da un lenzuolo bagnato legato a una grata malferma; Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare, morto all’ospedale di San Luca di Vallo della Lucania (2009), un calvario dostoevskijano. E infine, tra molti altri casi agghiaccianti e per niente chiari, racconta di Stefano Cucchi (2009), «trovato morto» nel reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. La sua è un’odissea tra caserme, prigioni, ospedali, celle di sicurezza, ambulatori, infermerie: dodici stazioni di una Via Crucis. Come viene a sapere la madre di Cucchi della morte del figlio? «Signora, dobbiamo farle firmare dei documenti» , le dicono i carabinieri sulla porta di casa. E lei: «Che cosa devo firmare?» . «La notifica del decreto del pubblico ministero che autorizza la nomina di un consulente di parte per eseguire l’autopsia» . È un libro prezioso che non vuole essere «un atto di accusa contro la polizia» e le forze dell’ordine, ma documentare con rigore comportamenti e modi di pensare che vanno cancellati, riformati, se l’Italia vuole veramente essere un Paese civile. Quando hanno aperto la cella è ricco di fatti e di analisi. Gli autori scoprono tra l’altro il ruolo appassionato delle donne, madri, mogli, figlie, sorelle, l’anello forte, il loro non mollare nella ricerca della verità quando la sentono violata. (È indimenticabile il viso vibrante, senza lacrime, di Ilaria, la sorella di Stefano Cucchi, il suo naturale coraggio. Antigone rivive nel mondo di oggi). «Mele marce» , viene detto dalle autorità quando si viene a sapere di abusi, omertà, silenzi, omissioni, violenze, reati commessi da uomini dello Stato su persone private della libertà. Non si può certo generalizzare, i più nell’amministrazione fanno ciò che devono, ma sono certamente troppi i casi di illegalità che macchiano soprattutto l’ambiente carcerario per coprirli con quella formula minimizzatrice, di comodo. Ha scritto Patrizia Aldrovandi, la madre di Federico, in un blog che dal 2006 in poi fece conoscere quel che era veramente successo a suo figlio: «Trovo scandaloso che i poliziotti condannati continuino nell’attività precedentemente svolta, che girino armati, che svolgano servizio di pattuglia. Che siano nelle condizioni, cioè, di ripetere contro altri quanto hanno già fatto contro Federico. Non è importante la galera che, secondo me, non serve a niente» . «Siano sospesi dal lavoro — scrive anche —, almeno da quel genere di lavoro. E dopo la sentenza definitiva si faccia in modo che possano rendersi utili alla società» . Come darle torto?
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il 7/2/2014


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