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Evasione

Arrivo ad A.

Ero arrivato ad A. passando vicino alle famose cascate, una delle meraviglie del mondo, e a una gola tra le montagne in cui l’arcobaleno mi aveva quasi toccato il naso. Una natura indimenticabile!

La popolazione era composta per il 70% di meticci, per il 25 di bianchi e per il restante 5 di indios della tribù dei Guaranì. Si parlavano lo spagnolo e il guaranì, una lingua strana, come loro: magri, alti circa un metro e ottanta, ottantacinque, di sembianze asiatiche, sembravano cinesi, e con una indifferenza minerale nello sguardo, frutto forse delle condizioni estremamente penose della loro esistenza. Suonavano l’arpa, considerato insieme alla chitarra il loro tipico strumento musicale.

A., paradiso fiscale: tutte le sigarette e il whisky di contrabbando che arrivavano dagli Stati Uniti si depositavano lì per poi essere distribuiti in tutto il Sud America. Repubblica bananiera, porto franco. Gli Americani guadagnavano milioni e milioni di dollari con il contrabbando, così pure il presidente, un dittatore e la sua banda di assassini, tutti generali e tutti miliardari.

A., terra di nessuno, e di tutti … e anche mia. In quel tempo io, con il mio passato di enfant terrible, mi ridevo di tutto, soprattutto di me stesso. Avevo imparato a legare il mio destino al momento particolare in cui vivevo, riuscendo ad approfittare della situazione con molta astuzia. Avevo molti soldi, guadagnati in modo poco lecito e abitavo in una villa nella zona più elegante della città, giravo con una macchina ultimo tipo, mangiavo al ristorante e frequentavo il casinò. Ammiravo la bellezza straordinaria della natura, ascoltavo musica e leggevo la poesia degli indiani guaranì, senza dimenticare però quello che ero venuto a fare: derubare qualche miliardario contrabbandiere, ce n’erano tanti che giravano per le vie della città!

Avevo conosciuto un impiegato della banca e lo invitavo spesso al ristorante, dove facevo sfoggio di soldi. «Tu con me puoi diventare ricco…», gli dissi un giorno con un sorriso complice «osserva attentamente le persone che vengono a ritirare i soldi tutti i mesi, quelle che ne prendono tanti. Al resto penso io.»

«Ok» mi rispose. Dopo un po’ di tempo mi disse: «Domani alle 16.00 viene un impresario a ritirare una grande somma di danaro, non so chi è, ma sicuramente è uno importante.»

Il giorno dopo vedo arrivare davanti alla Banca centrale un corteo di 5 Mercedes Benz, con a bordo il dottor M. e 24 guardie del corpo, armate fino ai denti. Il dottor M. scende seguito da 4 guardie, entra nella banca e dopo un po’ esce con 4 sacchi di cuoio pieni… Era un cliente abituale della banca, uno degli assassini più malvagi della storia dell’umanità. Con molto rammarico dovetti lasciarlo andare con tutti i suoi 24 assassini: portargli via quei 4 sacchi pieni di soldi era al di fuori della mia portata.

Comunque mi rifeci: grazie al mio amico bancario in pochi mesi avevo pulito la cassaforte di due ricchi contrabbandieri. Ma ero troppo giovane… Un giorno arrivò a casa mia la polizia segreta e trovò soldi, gioielli e attrezzi da lavoro. Finii al Commissariato. Erano passati 7 mesi dal mio arrivo ad A.

Al Commissariato di polizia, 7 mesi dopo

Mi presero, la polizia segreta del dittatore, mi torturarono per 15 giorni, mi tennero nelle condizioni più umilianti e brutali, nudo e incatenato mani e piedi. Al sedicesimo giorno mi portarono alla Centrale di polizia. È finito il calvario, pensai. Ma non fu così: altra gente ancora più brutale, di nuovo nudo, incatenato ai piedi. Mi spingevano la testa in una vasca piena d’acqua fino a farmi affogare, per ore; dopodiché con pezzi di legno mi picchiavano fino a farmi svenire. Questo tutte le sere, a me e agli altri che capitavano in quella cella 5 per 5, senza finestre. Pregavo Dio che mi portassero in carcere. Mi ricordavo di Dio quando stavo male e lo dimenticavo quando stavo bene. Così è la vita…

Il corpo era a pezzi, ma una piccola parte della mia anima non si dava per vinta: dovevo lottare. Mi rendevo conto dei miei fallimenti, ero caduto come un frutto maturo nelle mani di queste belve. Era un mondo nuovo per me e dovevo fare 10 anni di galera in un ambiente ostile, nelle condizioni più miserabili, senza famiglia, senza soldi. Dopo quasi un mese, i miei piedi erano diventati dei prosciutti, per le bastonate e le catene.

Ma dovevo resistere, essere all’altezza delle circostanze. Ero all’alba della mia vita, non potevo morire. Avevo tanto da imparare, ero venuto in questo mondo per quello, per cercare la luce, la verità, la conoscenza.

L’aria era irrespirabile, gente di ogni estrazione sociale ammassata lì e picchiata perché di idee diverse. Tutti i giorni, persone di ogni età buttate lì dentro senza nessuna colpa. Io ero colpevole, ma loro no. Vidi un professore di 50 anni morire d’infarto dopo una notte di vasca, era di un’altra religione, di un’altra razza.

Cercai di capire i destini umani, la sorte di ciascuno di noi e quale fosse il mio di destino. C’è la verità? mi chiesi. E qual è la verità? Chi me la garantisce? E come? Molto dipende pure dall’epoca in cui si vive e da molti altri fattori: religione, razza, stato sociale ecc. Io ero uno degli ultimi, il più insignificante degli uomini al mondo, ma la colpa non dovrebbe essere cercata soltanto in noi stessi, nella nostra storia personale, bensì anche nel mondo intorno a noi. Adesso tutto mi diventava più chiaro: la verità non esiste, ci sono soltanto punti di vista. La mia vita era un labirinto, dal Paradiso all’Inferno di Dante senza passare per il Purgatorio. Con questi pensieri e nella situazione tanto drammatica in cui mi trovavo, ero arrivato al limite della pazzia: dopo tante legnate e tante vasche, ero entrato in un’altra dimensione, con perdita di coscienza, senza dolori…., e quella musica nella mente che sarebbe stato il mio ultimo tango.

Eppure, nonostante l’angoscia che mi mortificava, sapevo che qualcosa doveva cambiare perché mi avrebbero portato in carcere.

Nel carcere di T.

Dopo circa un mese una camionetta mi portò nel carcere di T., diretto da due fratelli nazi, direttore e vicedirettore. Quante cose penose ebbi la sfortuna di vedere, quante atrocità! Ero stanco, ammalato, estraneo a tutto ciò che mi circondava. Fu un vero incubo. Dalla finestra vedevo uscire dal carcere accanto al nostro dei prigionieri politici con una catena ai piedi e una palla di ferro legata alla catena; con un piccone in mano andavano a bucare la montagna di pietre e sole, con una temperatura di 50 gradi all’ombra a mezzogiorno. Esseri umani mortificati, umiliati, in piedi sotto il sole per ore e ore, a bucare quella montagna. Ecco quello che vedevo dalla finestra, e anche la fame nei loro visi e la paura nei loro gesti. Vergognoso, spaventoso! Atrocità compiute da uomini del nostro tempo, malgrado la storia. Una cosa è raccontarlo, altra è vederlo e viverlo, questo inferno!

I tentativi falliti di fuga dal carcere di T. si pagavano con 10 anni in cella di punizione, una cella di 1 metro e mezzo per 1 metro, con il “bagno” incluso, senza finestra. Niente ora d’aria, sempre chiusi per 10 anni. La minestra la passavano attraverso un buco nella porta della cella. Un giorno buttarono fuori all’aria un uomo che aveva tentato l’evasione 10 anni prima. Era paralizzato, in posizione fetale, non poteva parlare, né camminare; bianco bianco, pesava al massimo 25 chili, senza barba, occhi azzurri. Era in un altro mondo, un’altra dimensione. Piano piano lo presi in braccio e, insieme a un indio guaranì, lo portai vicino a una vasca. Gli levammo gli stracci che aveva addosso e, mentre lo lavavamo delicatamente con il sapone, gli parlavo come se fosse un bambino. Gli altri detenuti guardavano da lontano, la mia anima piangeva e i miei occhi pure; dovevo comportarmi con dignità, vincere le mie paure di fronte all’indifferenza generale, alla loro mancanza di coscienza; dovevo andare all’infermeria, pregare, implorare, esigere, perché nessuno voleva prendersi la responsabilità di un essere umano in quelle condizioni. Finalmente un medico mi disse: «Portalo da noi!». Fu la prima e ultima volta che vidi quell’uomo.

La popolazione carceraria a T. è tenuta in condizioni subumane: 800 persone ammucchiate in un vero e proprio campo di concentramento, costrette a vivere come bestie, umiliate, quasi senza mangiare: tutti i giorni una minestra di mais e un pezzo di pane. Avevo i capelli secchi che mi cadevano a ciocche; presi l’epatite e la tubercolosi, prima o poi avrei perso la vita. Dovevo fuggire. Sapevo cosa mi aspettava se fallivo: 10 anni di isolamento e diventare un verme come quell’uomo. Quindi non potevo sbagliare, non potevo. Fuori mi aspettava la vita, la bellezza, la poesia, l’amore, la musica. Il mio angelo custode doveva darmi una mano, lo chiedevo con tutta la mia forza, con tutta la mia anima, con tutto il mio cuore!

Dovevo riflettere, cercare una via d’uscita, adattandomi alle circostanze. Non potevo confidarmi con nessuno, contavo solo sulle parole che il mio angelo custode mi sussurrava: “Resisti! Stai calmo! Osserva tutto quello che accade e al momento giusto trasformati! Mantieni l’armonia tra il tuo corpo e la tua anima. Dio non abbandona i suoi figli.”

Avevo sottovalutato il potere degli avversari. Vedendo quel popolo umile, semianalfabeta maltrattato e offeso, mi ero sentito molto più forte e importante di quel che ero. Adesso tutta la mia rabbia e il mio coraggio erano inutili di fronte a quella banda di rozzi assassini. Era una situazione molto difficile, e io dovevo affrontarla con pazienza e inventiva, per poter uscire da lì.

La fuga

Il giornale di A. mi aveva paragonato ad Arsenio Lupin e le fotografie pubblicate per tre giorni di seguito avevano fatto sì che, in carcere, guardie e detenuti mi guardassero come un extraterrestre. In effetti quello che avevo fatto era una cosa del tutto inusuale: per la mia giovane età – 24 anni – avevo accumulato un’esperienza notevole, frutto dei miei viaggi per tutto il Sud America. E quella era una misera popolazione di indios, meticci e quattro bianchi, che vivevano, tutti e quattro, nel silenzio, nell’indifferenza o dietro una maschera di ghiaccio.

Dovevo dominare l’impazienza, dovevo conquistarmi la fiducia delle guardie, soprattutto di quelle che stavano al portone principale e che, tutto sommato, erano le più gentili ed educate perché avevano a che fare con giudici e avvocati.

Io continuavo ad ascoltare le parole del mio angelo custode … e quelle del vento. Continuavo a guardare le stelle alla ricerca della mia forza spirituale e dell’aiuto degli Dei, che alla fine mi illuminarono.

Mi offrii volontario per scaricare le merci che arrivavano con i camion. Lavoravo vicinissimo al portone e nei 7 mesi che seguirono conobbi tutte le guardie della sorveglianza. Non potevo commettere il peccato capitale della pigrizia, dovevo stare sempre all’erta, svegliarmi in orari che non mi piacevano, parlare con gente che non ti arricchisce di nulla, impormi dei sacrifici, come entrare in confidenza con gente insopportabile. Mi offrivo volontario per ogni cosa e mi comportavo come gli altri detenuti: con umiltà e molta educazione. Sapevo che tutti avevano paura di tutti: nelle guardie la paura si manifestava attraverso l’aggressività, nei detenuti attraverso la sottomissione. E io avevo imparato. Loro non si aspettavano da parte mia un comportamento così mansueto; così in poco tempo mi ero guadagnato la fiducia. Ora dovevo stare attento a non fare passi falsi: un errore poteva essere la fine di tutto.

Le guardie erano molto curiose delle mie imprese: come avevo fatto a scassinare quella cassaforte, come ero riuscito a entrare in certe case … E io soddisfacevo la loro curiosità raccontando tutto nei minimi particolari. Per quei meticci i miei racconti erano storie di avventure meravigliose e, durante il lavoro, mentre gli altri scaricavano i camion, mi chiamavano… e io raccontavo, raccontavo… A un certo punto, con l’aria di chi sta facendo un’importante e delicata confidenza, dissi a cinque di loro:

«Appena uscirò di qui, andrò a recuperare i miei soldi e farò un altro “lavoro”, che ho già preparato da tempo insieme a un mio amico. E allora di soldi ce ne saranno tanti…»

Mi guardarono in silenzio, loro non potevano sapere che la polizia segreta mi aveva portato via tutto il denaro al momento dell’arresto, ma sapevano invece che in quel Paese con i soldi si sistema tutto, e lo straniero che entra in carcere dopo poco tempo riesce a uscirne.

Dovevo andare in Tribunale per due processi relativi a due reati diversi; sapevo che senza soldi mi avrebbero dato minimo 10 anni di galera. Così tentai. Il mio cervello era ancora in grado di funzionare e i miei vestiti erano eleganti, all’ultima moda.

Il piano era semplice: alle cinque guardie che mi accompagnavano al Tribunale per la prima udienza del processo dissi: «Tra pochi giorni verrà un mio amico e porterà tanti soldi destinati al giudice. È già tutto sistemato… Voi siete tutti invitati all’hotel ** a mangiare con me… E poi vi aspettano tanti bei regali… Il denaro che mi serve so già come procurarmelo. Conoscete la gioielleria di via E. ?»

La conoscevano.

«Bene. Allora andate dopo mezzogiorno all’ora di chiusura per la siesta e vedrete che c’è una porta che dà su un corridoio: io entrerò da lì e svaligerò il negozio. Ma mi serve il vostro aiuto e prima di andarmene via da questo Paese vi farò un bel regalo».

Il Tribunale era un vecchio convento stile coloniale, accanto alla sala del giudice, al secondo piano, c’erano dei bagni con piccole finestre, di quelle con i vetri che si aprono sollevandoli a metà. L’apertura era stretta e un uomo non poteva passarci, ma trovando il modo per eliminare il vetro, ce la si faceva. Durante la prima udienza avevo osservato attentamente tutto.

La seconda udienza era fissata dieci giorni dopo. Mi misi d’accordo con un mio vecchio amico, un indio guaranì: «Il giorno dell’udienza devi essere in Tribunale alle ore 9, andare nel bagno e chiudere la piccola finestra; quindi rompi il vetro e sostituiscilo con un cartone della stessa misura. Quando hai finito torna a casa tua e aspettami là».

Il fatto di vivere nelle condizioni più umilianti e tra le privazioni più brutali mi dava la forza di affrontare questa fuga quasi impossibile. Sapevo che se fallivo era la morte; ma se rimanevo erano fame, malattie e morte. Io, un consumato atleta che non fumava, camminava sulle mani, faceva salti mortali, pugilato, pallone, nuoto…, ero dimagrito di 20 chili, ma continuavo a fare ginnastica anche lì.

Arrivò il giorno dell’udienza. La stessa camionetta, le stesse guardie e io con la stessa faccia tosta.

«Siete andati a vedere la gioielleria?» chiesi.

Mi risposero di sì e, siccome tutto coincideva con la descrizione che gli avevo fatto, mangiarono la foglia.

«Allora oggi, quando finisce il processo – e sicuramente finirà bene perché il mio amico ha già sistemato tutto – vado alla gioielleria durante la siesta… Lascerò a voi cinque la metà dei gioielli. Per un po’ di tempo nascondete tutto, finché non mi metterò in contatto con voi.… E stasera tutti all’hotel **, con le più belle donne del mondo!»

Quei cinque mi facevano un po’ pena, mi dispiaceva prendere in giro questa gente analfabeta, ma in gioco era la mia vita, l’unica che avevo, e se la perdevo era per sempre.

Arrivammo al Tribunale alle 10 in punto. Il ricordo di quell’uomo con gli occhi azzurri mi tormentava, sembrava un angelo con la faccia sporca, e io, se avessi sbagliato, sarei diventato così. Il giudice mi aspettava.

Appena entrato nell’aula, con la faccia dolorante guardo il giudice: «Signoria, per favore», dico toccandomi la pancia «posso andare in bagno? Sto male».

«Vada, vada» mi disse, assicurandosi con lo sguardo che le guardie fossero all’uscita.

Esco e vado a sinistra verso l’ultimo bagno. Le guardie sono a destra e stanno parlando. (Il mio angelo custode è lì pure lui, sono sicuro). Intanto mi concentro sulle mie azioni: entri, ti abbassi i pantaloni e aspetti 30 secondi. Entro nell’ultimo bagno, senza voltarmi indietro, c’era il mio angelo custode che pensava a tutto. Dopo qualche istante apro di 5 centimetri la porta del bagno per controllare che qualche guardia non mi avesse seguito. Tutto a posto, continuavano a chiacchierare. Tiro fuori il piccolo cartone della finestra e mi infilo attraverso l’apertura. Afferro la cornice e mi ci aggrappo, grazie ai 20 chili di meno, volando al piano di sotto. Lì non c’era nulla a cui potermi aggrappare, faccio una piccola sosta, poi con le mani e i piedi mi rigiro come un gatto e mi lascio cadere carponi sul terreno adiacente il tribunale. Salto il muro ed esco in strada. La casa del mio amico guaranì distava 5,6 chilometri, li ho fatti più veloce che potevo. Il guaranì mi aspettava. Con il suo sguardo minerale mi chiese: «I pora la porta curepì? (come stai, gringo?)». «Sto bene, cinese», gli risposi in guaranì. Ci abbracciammo forte.

Il viaggio

Un grande fiume attraversava la zona per chilometri, io dovevo attraversarlo e poi percorrere 2000, 2500 chilometri per arrivare a casa mia. Prima però dovevo procurarmi documenti e soldi. Rubare una canoa fu una passeggiata, un tronco d’albero con un buco in mezzo, ma la cosa più pericolosa erano i piranha. Il mio amico guaranì mi controllò tutto il corpo per vedere se avevo qualche graffio che potesse attirarli, poi mi diede una bottiglia d’acqua, senza la quale non avrei potuto sopravvivere, e un pezzo di pane con qualcosa. A mezzanotte lo salutai e mi sdraiai nella canoa; con un remo e le braccia arrivai a una piccola isoletta in mezzo al fiume. Lì presi fiato, camminai fino alla riva opposta, poi di nuovo in acqua sulla canoa. A 100 metri dalla riva mi liberai della canoa per non lasciare tracce.

Sapevo che dovevo evitare il primo paese che incontravo, perché potevo essere già ricercato dalla polizia; così, con la mia bottiglia d’acqua, il pezzo di pane e mortadella, mi diressi verso R., una cittadina un po’ più lontana.

Percorsi 400 chilometri a piedi, camminando di notte e dormendo di giorno sotto i ponti o sulla riva del fiume, tutto pieno di zanzare. Mangiavo quello che trovavo: qualche frutto, erba, formiche…

A R. conoscevo un ragazzo molto povero che abitava in una baracca. Ero debole e affamato, ma riuscii a trovarlo. Feci doccia e barba, mi pettinai per bene e con la camicia e la cravatta del mio amico andai a farmi la foto tessera da mettere sulla carta d’identità che dovevo ancora trovare. Rubare la carta d’identità di un uomo della mia età, 5 anni più 5 anni meno, fu uno scherzo per me. Andai alla stazione degli autobus e me ne “procurai” una: il mio nome ora sarebbe stato Vicente *, come quello di un generale che aveva combattuto per l’indipendenza.

Finalmente, dopo tanto tempo, dormii in un letto, poi di notte ripartii. Mi misi in cammino sotto la pioggia verso il fiume che dovevo attraversare. Una macchina si era fermata sul bordo della strada: aveva una gomma a terra e aiutai il ragazzo che la guidava a cambiarla. Gli dissi che stavo viaggiando in autostop e gli chiesi un passaggio; le due zie che erano con lui rifiutarono energicamente e gli dissero di liquidarmi con una mancia, ma lui protestò: «Io ho girato tutta l’Europa in autostop e lo lascio qui sotto la pioggia? No, zie, dobbiamo farlo salire». Così montai in macchina, mangiai con loro e arrivai alla frontiera. Qui mi procurai una barca con la quale attraversai il fiume e arrivai a P. Ero sfinito, magro: pesavo 50 chili dagli 87 di prima.

Appena arrivato un poliziotto in borghese mi ferma e mi chiede i documenti. Io mi presento: «Sono Vicente * », e gli do la carta d’identità.

Lui controlla e mi chiede: «Quanti soldi hai? Cosa vieni a fare a P.?»

«Niente, capo, sono di passaggio. Sono ammalato, non lo vedi?», gli dico con la faccia disperata. «Ho un’ulcera perforata e vomito sangue; vuoi che ti faccia vedere? Sto andando all’ospedale, dove un mio cugino infermiere mi farà operare da un medico che conosce. Per favore, non fermarmi, sto male; ho giusto i soldi per arrivare a P.…»

Lui mi guarda fisso e mi fa: «La corriera per P. parte alle 14. Io ti voglio vedere là, salire su quella corriera.»

Sei ore dopo ero a casa mia. Era finito il mio viaggio. Ero ritornato dall’inferno. Dovevo pregare per tutti coloro che avevano perso la vita in quella terra e ringraziare Dio per avermi risparmiato.

Alla fine di questo racconto voglio dire alla cara professoressa Luciana che la legge della relatività è per me un mistero, ma la legge della strada e quella della fame le conosco molto bene.

A 10 anni, piccolo bambino innocente, invece di andare a scuola, dovevo stare a casa ad occuparmi, insieme a mio fratello di 13 anni, dei fratellini più piccoli e a far da mangiare, perché mia madre lavorava come domestica e mio padre era meccanico. Dico ‘casa’, ma si trattava di una baracca di latta, senza acqua né luce. Quando mancava una settimana alla fine del mese arrivavano i problemi: non c’era più niente da mangiare. Allora mio padre mi diceva: «Dai, fatti dare un biglietto dalla mamma e portalo al negozio di alimentari, il proprietario ti darà 1 kg di riso, ½ litro di olio, l’aglio…»

Io non ci volevo andare.

«Vai, vai tranquillo», mi diceva «è la cosa più naturale del mondo!»

«Se è così naturale, perché non ci vai tu?» protestavo, ma andava a finire che ci dovevo andare per forza. Aspettavo dietro l’angolo il momento in cui non c’era nessun cliente nel negozio, allora entravo di corsa strappando il biglietto con furia e dicevo al proprietario: «Michelangelo, mi manda mia madre. Dammi riso, olio…. Ti pagherà la prossima settimana.»

Ogni mese era la stessa storia, e sempre la stessa vergogna, che provo tuttora nel ricordare.

A 11 anni mi alzavo alle 3 del mattino, prendevo una borsa di cotone, che non fa rumore, e insieme a mio fratello maggiore andavo nella caserma militare vicina a casa nostra; lì, passando sotto il filo spinato, ci dirigevamo piano piano verso l’orto, dove prendevamo una lattuga, una carota, 3,4 patate, e le mettevamo nella borsa. Quindi, camminando carponi e sempre con la paura che ci sparassero addosso, ritornavamo a casa, nascondevamo sotto il letto la roba e ci riaddormentavamo. Quando la sera i miei genitori tornavano dal lavoro, trovavano quelle cose da mangiare. Mio padre faceva finta di niente, mia madre invece chiedeva: «Ma da dove viene questa roba?» Non lo seppe mai.

A 14 anni finii in un riformatorio, a pugni con il mondo, e imparai tutti i trucchi del mestiere. Non so quante furono le mie fughe dal riformatorio, ma certo tante.

A 16 anni, con documenti falsi presi il mio primo treno. La mia ribellione per la miseria sofferta era tanta. Non facevo una doppia vita: rubavo per fame, non per hobby. Ero un bandolero, un guerriero, non cercavo di sembrare, io ero. Avevo i miei sogni, conobbi la solitudine e la frustrazione. La conoscenza dell’infelicità altrui mi aiutava a vincere il senso di colpa che sentivo nella mia anima.

Dopo qualche anno arrivai in * , fui carcerato e torturato; con l’astuzia, la fame, le malattie e 40 kg in meno, riuscii a guadagnarmi la libertà e a ritornare a casa, libero come prima, ma schiavo dei miei sogni: la libertà, che è l’opposto della schiavitù, è una cosa difficile da capire…

Così è stata la mia vita e così sarà, con l’amore, la musica, la poesia, fino all’ultimo viaggio al cielo o all’inferno. Chi lo sa?

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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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