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Frutti di stagione. La castrazione, per esempio

 

Ripubblichiamo, dall'Unità del 19 settembre 2007, un articolo che non richiede - come si vedrà - alcun aggiornamento.

 

di Luigi Manconi e Federica Resta

Il sillogismo è semplice e infallibile. Tutte le volte che il richiamo a mezzi forti e norme speciali, provvedimenti d’eccezione e misure drastiche non è accompagnato da rigorosi (meglio se preventivi) test sulla loro reale efficacia, lì si ha demagogia. Vale per le norme sulla violenza negli stadi come per l’emersione del lavoro nero. E vale – forse ancor più – per quanto riguarda gli strumenti destinati a intervenire su quell’inestricabile groviglio che è l’intreccio tra psicopatologia e criminalità. Appena qualche settimana fa, sull’onda di una notizia proveniente dalla Francia, per due giorni si è ripreso a chiacchierare, all’interno del dibattito politico-giornalistico, di “castrazione dei pedofili”. E’ un tema ricorrente. Press'a poco come quello della scomparsa delle stagioni e della dieta punti. In questo caso, la futilità dell'approccio è resa più grottesca dal fatto che la questione rimanda a problemi tragici e la cui soluzione è, a dir poco, impervia. Cessato il clamore, vale la pena tuttavia di riprendere il discorso perché la ferita - quella dei minori abusati e degli adulti pedofili, spesso a loro volta abusati quando bambini - rimane aperta e dolente. Si dovrebbe partire, pertanto, da una rigorosissima distinzione tra i diversi trattamenti (terapia psicologica o farmacologia), tra i differenti protocolli (terapia scelta o imposta) e dalla attenta valutazione delle esperienze già realizzate e farne tesoro. Accade raramente in Italia. Non accadde ad esempio quando, nel luglio 2003, l'allora ministro della Giustizia, Roberto Castelli, in risposta a un'interrogazione alla Camera dei Deputati, preannunciò - un disegno di legge che affidasse "coattivamente all'uso di ritrovati farmacologici la possibilità di impedire la reiterazione del reato nei soggetti già condannati". Era, palesemente, non più che un messaggio ideologico: e tale rimase. Eppure, qualche mese prima, il Comitato nazionale di bioetica aveva già espresso un parere negativo sulla proposta, avanzata dal Procuratore generale presso la Cassazione, di "introdurre un trattamento obbligatorio successivo alla espiazione della pena, modellato sullo schema della misura di sicurezza". Il Comitato nazionale di bioetica auspicava, invece, che il legislatore non prendesse "in considerazione l'ipotesi di introdurre nel nostro sistema un trattamento sanitario obbligatorio e permanente nei confronti delle persone con tendenza pedofiliache: istanze bioetiche fondamentali (...) inducono a ritenere che tale trattamento - anche se fosse capace di estinguere le pulsioni pedofile nel soggetto (il che è ben lungi dall'essere dimostrabile scientificamente) - acquisterebbe il carattere di una indebita violenza, tanto più grave in quanto motivabile (...) a partire da ragioni di difesa sociale e di equilibrio del sistema penale e non da una attenta considerazione del bene oggettivo delle persone umane che verrebbero coattivamente sottoposte al trattamento". Nonostante ciò, forse anche per l'allarme suscitato dalla vicenda di Rignano Flaminio, in Italia, e da analoghi casi, in Francia, oggi si torna a discutere di "castrazione" per chi abusi sessualmente di minori. Questione che non può non dividere, opponendo chi invoca la "tolleranza zero" per quanti si macchino di reati così gravi (connotati, peraltro, da un alto tasso di recidiva, che con la castrazione si vorrebbe scongiurare) e chi osserva come, in una democrazia, la pena non debba mai arrivare al punto da incidere in maniera tanto profonda sul corpo, la vita, l'integrità e la personalità del condannato (cosa che avverrebbe se si precludesse irreversibilmente una funzione vitale come quella sessuale). Tanto più in un'epoca in cui, come dice Foucault, "la pena, da 'arte di sensazioni insopportabili', ha progressivamente reciso i suoi legami con il corpo e la vita, per farsi economia di diritti sospesi". Dalla castrazione fisica, dunque, alla sospensione fisica del diritto alla sessualità. Ma queste potrebbero apparire come "sofisticherie" di fronte al dramma irrisarcibile di un minore abusato. Pertanto, della pedofilia e della sua prevenzione (e repressione) si deve discutere, senza preclusioni e tabù, consapevoli che si tratta di uno dei problemi "più difficili del mondo". Che riguarda una forma particolare di devianza (quella sessuale), ma anche e soprattutto quel rapporto tra le generazioni, adulti e bambini, che Freud avrebbe potuto definire il vero "disagio della civiltà". Di questo "disagio" parlano i fatti di cronaca ma anche le leggi, mai come in questa materia, tanto frequenti quanto, troppo spesso, inefficaci. E il tema della "castrazione" è quantomai delicato. Non solo perché, come spiega Lino Rossi, da un lato, essa provoca un temporaneo abbassamento del desiderio sessuale e, dall'altro, rende il soggetto più aggressivo (cosa già di per sé meritevole di attentissima considerazione per i pericoli che comporta): anche perché chi abusa esprime un disturbo psicologico e non patologico-organico. La pedofilia non è una malattia psichiatrica da potersi curare facilmente con rimedi farmacologici; secondo la più accreditata letteratura scientifica, è piuttosto 'parafilia', ovvero disturbo della personalità o del comportamento, qualificata dalla deviazione dell'interesse sessuale verso i minori. Si spiega così (oltre che sulla base di ragioni giuridico-costituzionali, relative all'indisponibilità dei diritti fondamentali) perché, rispetto alla soluzione 'farmacologica', prevalga (almeno nei paesi europei) il modello della terapia psicologica. Il condannato, per potere fruire dei benefici penitenziari o comunque a titolo di misura di sicurezza, è sottoposto a terapia psicologica, individuale o di gruppo, negli "istituti di terapia sociale". La prima condizione di questo trattamento è che per ridurre la recidiva (per essere, cioè, efficace) presuppone la volontaria adesione del condannato al programma riabilitativo. Questo spiega perchè nella maggior parte dei paesi (ad esempio, Finlandia, Spagna, Belgio, e molti stati nordamericani) la "castrazione" è prevista come esclusivamente volontaria. Invece, i sostenitori della legge tedesca, che ha previsto la terapia psicologica come obbligatoria, affermano che anche i condannati restii o contrari, dopo un primo periodo di terapia, superano le resistenze e portano a termine il percorso riabilitativo con buoni risultati (si stima una riduzione fino al 50% del tasso di recidiva, ma i dati sono decisamente contraddittori). Discorso diverso richiede la "castrazione chimica" volontaria, prevista in Germania, Svezia, Norvegia, California e Canada. In Danimarca, poi, dove i violentatori possono scegliere fra lo scontare interamente la condanna in carcere o accettare di seguire un trattamento medico, beneficiando cosi' di una liberazione anticipata, la terapia sembra aver dato risultati efficaci; i casi trattati (25 dal 1989 al 2005) non hanno registrato recidiva. E, tuttavia, questo non consente di eludere alcune domande di fondo. Di fronte al pericolo di ulteriori violenze sui minori, qual è il limite del diritto e della pena? Fino a che punto si può accettare di comprimere i diritti fondamentali dell'imputato, in nome della protezione di un'infanzia indifesa? Qual è il limite oltre il quale il bisogno di tutelare i bambini non può imporre deroghe alle forme ordinarie e garantiste del diritto penale? Difficile rispondere. Ad aiutarci è quella stessa mozione del Comitato nazionale di bioetica prima ricordata. Essa non corrisponde solo ed esclusivamente a una sacrosanta affermazione di principi inviolabili: in un breve inciso è contenuto un argomento formidabile, e da troppi - irresponsabilmente - trascurato. L'efficacia della "castrazione chimica", anche "se fosse capace di estinguere le pulsioni pedofile", è "ben lungi dall'essere dimostrabile scientificamente". Ecco il passaggio cruciale da tenere ben presente. Non disponiamo per ora di ricerche su campioni sufficientemente rappresentativi per trarre un bilancio definitivo, e definitivamente attendibile, dei risultati della "castrazione chimica". I dati sono spesso controversi: e, tuttavia, alcuni devono farci seriamente riflettere. Consideriamo ancora una ricerca, quella condotta nel 1991 in California, che ha dimostrato come nel 7, 4 % dei casi, neppure la "castrazione chimica" ha potuto impedire la commissione di abusi sessuali nei cinque anni successivi al trattamento. La "castrazione chimica" rischia quindi di essere quindi non soltanto una misura di dubbia legittimità (giuridica, morale, politica), ma anche inefficace, proprio perché non garantisce la prevenzione della recidiva. Se questa ultima ricerca fosse generalizzabile e, dunque, la adottassimo come parametro incontrovertibile dell'efficacia del trattamento in questione, le conseguenze sarebbero obbligate. L'argomento più diffuso e "popolare" contro le preoccupazioni garantiste e la tutela dei diritti fondamentali dell'autore del reato - che cos'è la violazione di quei diritti di fronte allo scempio di un bambino? - perde la gran parte della sua forza. Quella percentuale di fallimento tende a vanificare l'argomento prima citato. I diritti in alternativa - quello alla tutela del bambino e quello all'integralità del suo abusatore - risultano inconciliabili e portano, inevitabilmente, a privilegiare il primo quando la deroga al secondo dimostri la sua assoluta necessità (e utilità). Ma se nel 7,4% dei casi non è così, quel 92,6% di successo non è sufficiente a motivare la rinuncia a un diritto per definizione irrinunciabile. E impone, piuttosto, la ricerca di soluzioni diverse, la cui efficacia sia maggiore e la cui capacità di ledere diritti fondamentali sia minore. Tutto ciò - lo sappiamo bene - è opinabile, ma ci sembra consentire un approccio più corretto e produttivo al problema. Problema che si conferma, come dicevamo, tra i "più difficili del mondo". Forse perché, come scrive Theodor W. Adorno, "il tabù più forte di tutti (...) è oggi quello che va sotto la voce di 'minorenne'(...) Il sentimento di colpa, universale e motivato, del mondo degli adulti non può fare a meno di ciò che essi definiscono l'innocenza dei bambini, come della sua immagine speculare e del suo rifugio, ed ogni mezzo per difenderla per loro va bene".

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