di Mauro Palma |
Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti
Capita spesso a chi conduce attività di supervisione e monitoraggio delle strutture detentive al di fuori dell’Italia, di sentirsi rivolgere la domanda su quali siano le peggiori – e quali le migliori – e su come si collochi il nostro paese all’interno di questa ipotetica classifica. La risposta non è mai semplice. Anche considerando ‘soltanto’ il contesto europeo, di cui si occupa il Comitato per la prevenzione della tortura, occorre tenere presente che si tratta di un territorio estremamente esteso perché, comprendendo anche la Russia, va dal Portogallo alle coste del Pacifico e, da sud a nord, da Malta all’Islanda. Comprende 47 Paesi – solo la Bielorussia ne è esclusa perché non fa parte del Consiglio d’Europa, giacché non soddisfa il pre-requisito di rinunciare alla pena di morte. E si tratta di Paesi che hanno tradizioni sociali e giuridiche molto diverse tra loro che portano spesso ad attribuire attenzioni differenti ai problemi della quotidianità carceraria e soprattutto ad avere scale di priorità spesso molto dissimili. Si può citare, a mo’ di esempio, il caso delle prigioni finlandesi, che certamente hanno risolto positivamente parecchi problemi che affliggono quelle dei paesi mediterranei, soprattutto per quanto attiene alla trasparenza delle procedure, al rispetto delle regole e dei diritti individuali incomprimibili delle persone recluse. Eppure in esse la stragrande maggioranza delle celle, anche di quelle più recenti, rigorosamente individuali, non hanno il gabinetto e la pratica del ‘bugliolo’ di antica memoria, da svuotare e pulire quotidianamente, è ancora presente. Tuttavia questo aspetto non è ritenuto dai detenuti come particolarmente rilevante; mentre gli stessi detenuti riterrebbero grave e fonte di forte protesta, l’eventualità che venga loro tolto il diritto alla sauna. Quest’ultima essendo ritenuta, sulla base delle tradizioni culturali del luogo, un elemento essenziale della vivibilità individuale. Qui emerge la difficoltà di avere standard omogenei a cui affidarsi. Questi ultimi, infatti, devono anche guardare ai contesti perché non è solo l’oggettività di una situazione, ma anche la percezione che di essa hanno gli individui di un determinato luogo o di una determinata collettività, a determinare un trattamento contrario a quel senso di umanità che è richiamato dall’articolo della Convenzione europea per i diritti umani che recita: “nessuno può essere soggetto a tortura o a trattamenti o pene inumani o degradanti”. Un riferimento in equivoco, per avere un occhio omogeneo su un territorio così vasto, è che la privazione della libertà costituisce in se stessa la pena e non costituisce invece una condizione su cui applicare un’ulteriore punizione. Semplice principio, per quanto attiene all’enunciazione; eppure difficilmente rispettato, un po’ ovunque. Perché la tentazione di qualcosa di più pervade vari sistemi detentivi europei. A cominciare da quelli, come il nostro, che vi aggiungono elementi di corporeità, di compressione di bisogni primari, quale quello della sessualità. Ma, di questo occorrerà parlare più in dettaglio in questa rubrica. |
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- Pubblichiamo una serie di lettere inviate da detenuti a Radio carcere, trasmissione settimanale a cura di Riccardo Arena, su Radio Radicale
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