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Afasia ovvero il mondo invisibile dietro le parole
di Augusto Guerrieri

Le righe laterali blue e rosse identificano la posta aerea. In verità anche la carta, leggerissima, quasi a non voler appesantire la carlinga di qualche cariatide che ancora circola nell’atmosfera. Di solito ricevo buste standard, anche dall’estero. C’è una sola persona che usa questo tipo di missiva, e non mi scrive dal mio cinquantesimo compleanno.
Sono passati due mesi da allora, in mezzo Natale e Capodanno, eventi che si festeggiano sempre e a prescindere. Questo silenzio è più esplicativo della parola, anche quelle in verità ce l’eravamo dette, ma sempre con leggerezza, quasi a non ferirsi mai, fino a diventare irrimediabilmente banali e lontani da ogni reciproco interesse. Quando soffochi o sopisci le reazioni, capita. Il tempo prende e il tempo dà, diceva Guccini dopo un incontro con una cara amica che non vedeva da dieci anni, così si finisce per rimanere vittima delle proprie acredini o delle proprie indifferenze, a noi era successo la seconda.
In verità, evitavo di pensarci, il passato non è il mio forte, rimpianti e rimorsi si equivalgono e di fondo ritengo non possa essere altrimenti, aver sbagliato per aver fatto o per non aver fatto comporta per me la stessa pena. Il presente, poi, è già passato appena ne parli e rientra ipso iure nella categoria di cui sopra.
C’è probabilmente in tutti noi un meccanismo di autodifesa, in me, date le non poche peripezie, si innesca automaticamente appena i neuroni cerebrali si avvicinano alla soglia del dolore e i recettori trasmettono i primi sintomi ai gangli. Per andare oltre devo farmi male sapendo di farmelo. Nella continua ricerca di sensazioni dell’esistenza è anche questa, comunque, una pratica che non mi nego, vittoria della componente masochista truccata spesso da autoironia per mitigarne i devastanti effetti. Resta il futuro, per affrontarlo ci vogliono una forte presa di coscienza, serenità e freddezza per non abbandonarsi a sogni a occhi aperti, che creano un alone di effimera beatitudine, alleviano la quotidianità concedendo un leggero stato di amenità. La realtà, invero, è sempre molto più cruda.
Cerco una spiegazione, scientifica. Per lo stesso motivo affronto una crisi religiosa profonda, io cattolico da sempre, se non altro per insegnamento. Più vado avanti nella conoscenza, più mi allontano dal Divino e materializzo i misteri dell’Universo. Per un lungo periodo la crisi era tale che non ho neanche voluto ascoltare musica, stavo vivendo un periodo difficile e ritenevo le note blasfeme, se pure tristi.
Ero rimasto particolarmente colpito dalle parole riferitemi in una telefonata da chi mi invia la posta aerea. Ho cercato di metabolizzare completamente il discorso, sfrondandolo da personalismi di comodo. Non ho risposto subito, ho deciso di concedermi due settimane sabbatiche per meglio capire, magari correndo la mattina, quando il sole che sale da est fino allo zenit, tende a scaldarti sempre più, mantenendo poi nelle ore successive il tepore termodinamicamente raccoltosi.
Con lei sto insieme da sette anni, ci siamo conosciuti nel duemila, io ero già separato con due figli grandi e mi trovavo in Bielorussia da poco, parlavo solo inglese, oltre all’italiano chiaramente. Lei parlava russo e francese, eppure per capirci ci bastavano i gesti e le emozioni, a volte qualche fazzolettino di carta dove disegnavamo infantili simboli: casa mia, la valigia, la chiesa, la vera. Poi io ho cominciato a studiare la lingua, diventando l’unico italiano che parlava in casa la lingua di Puskin, senza obbligare la compagna a studiare lo stil novo di Petrarca l’aretino. Fra noi ventuno anni di differenza, tanti, mai troppi dico io. Sono contrario alle affermazioni categoriche, ho imparato dalla vita che non è mai finita la salita, ma proprio per questo ci sono altrettante discese, ho visto essere felice chi ritenevo avrebbe sofferto sempre, disperarsi colui al quale, al contrario, pronosticavo un radioso e illuminato futuro, io ne sono d’altro canto esempio vivente.
Con Valeria è cominciata così, come una delle tante storie della mia vita: un amico una sera che ti invita perché ha con lui due ragazze nuove, un ballo, una cena, una bottiglia di vino rosso, non meno galeotto del libro e di chi l’ha scritto dei famosi lussuriosi dell’inferno dantesco. Una notte di passione e poi ancora una, una festa al mare salato, qualche incontro con gli amici anche loro fidanzati, il sabato sera passato in casa davanti alla televisione, il computer e internet, un menage che trasforma l’avventura in relazione, la relazione da fugace a stabile.
Ciò nulla toglieva al mio Peter Pan, la conquista femminile era rimasta nel mio DNA e andai avanti per oltre un anno con un menage a trois, quello classico dove non si interviene fino in fondo per la paura di rompere un equilibrio. Oggi posso dire che uno era sesso e complicità, l’altro famiglia e perbenismo. Arrivati al fatidico bivio, una notte rientrammo io e Valeria alle tre e incontrammo l’altra in casa, dopo tutto per par condicio entrambe avevano le chiavi del mio appartamento, dovemmo prendere coscienza e fare delle scelte; vinse la fidanzata, mi era capitato così altre volte, anche importanti, nella mia vita sentimentale.
Fu intenso quel primo anno insieme, mi fece comprendere chi e cosa volevo.
Occorre fare una riflessione. Paradigmiamo il giro del sangue venoso e arterioso nel corpo umano e partiamo dal ventricolo destro del cuore, per dire che in quella parte alloggia il mio essere tradizionale, con tale specificazione intendo quello che i miei avevano pensato sarei potuto diventare e io ci avevo creduto: un professionista di discreto successo, con una bella casa, moglie e figli educati istruiti e felici, l’estate nella casa al mare di proprietà, l’inverno in montagna, qualche gita culturale immancabile nella formazione e nel mantenimento dello status. La partita della squadra di calcio del cuore la domenica, anche un innocuo tradimento ogni tanto, per fare sesso e differenziarlo dall’amore, quello solo con la moglie, relazioni del tipo occhio non vede e cuore non duole, e se fosse nato qualche dubbio un regalo eclatante, o una lettera sul primo quotidiano nazionale come si usa oggi avrebbero ricomposto le cose. Il ventricolo destro ha vinto ad oggi tutte le sue battaglie, pur sapendo che le condizioni endogene non erano più realizzabili.
Fu bello quel secondo anno.
La linfa vitale, come il sangue, arriva poi all’orecchietta sinistra. Lì domina la realtà, una realtà pragmatica, il fatto che poi, in fondo, ognuno di noi fa quello che gli fa comodo, e quando trova un tornaconto qualsiasi, intendendo con questo non necessariamente mero materialismo bensì un insieme di sensazioni che inducono l’azione in una direzione piuttosto che nell’altra, segue quell’itinerario. È una strada piena di insidie. Una forte formazione e un continuo confronto con la realtà, valori morali ed etici radicati possono aiutarti, ma spesso non bastano, il gusto del nuovo, la voglia di fare esperienza, il sentirsi padroni del mondo, sorpassa senza esitazione ogni numero dato, purtroppo la velocità è elevata, si pensa di finire primi al traguardo ma si può anche uscire di pista e farsi male, molto male.
Vissi un periodo del genere prendendo in affitto un ristobar, aperto tutte le notti dalle 17.00 alle 5.00, alla prima periferia di Minsk, in un quartiere dormitorio che, non essendo ben collegato la notte con il centro, induceva gli indigeni a trovare sfogo in loco. Proprio di sfogo si trattava, io preparavo le cose con cura per una clientela che alla fine voleva solo vodka, musica e qualche donna, queste ultime neanche così marcatamente, l’alcool era sicuramente sul gradino più alto del podio. Fu duro e difficile andare avanti, fra alti e bassi di guadagni, investimenti, ripensamenti. La fine fu ingloriosa, come tutte le cose in cui finisci per non credere, ritornai tutto al proprietario e litigammo anche per il suo ormai comodo non impegnarsi in nulla e godere di una buona rendita e del mantenimento del capitale.
La mia compagna fu la vittima sacrificale di una situazione che mi vedeva tornare la mattina ben dopo l’alba, spesso avvilito dalla barbaria vandalistica di ragazzotti ubriachi con i quali non mancava occasione di menare le mani. Alle belle cene in veranda, nell’appartamento che avevo avuto all’undicesimo piano, si era sostituito il grigio del cemento di un comodo appartamento non lontano dal ristorante, dalla casa dei genitori di lei e dalla fabbrica dove lavorava come aiuto marketing, il grigio del mio ormai avvilito carattere, Il grigio della neve non più bianca e soffice come ci appariva quando, solo un anno prima, passeggiavamo con Lucas, il nostro pechinese, che affondava nella soffice coltre e annaspava per venirne fuori.
Fu egoista quel terzo anno della nostra storia.
Poi si tocca il fondo e si cerca di risalire, anzi si risale per forza, se non altro per il principio di Archimede, anche i cadaveri tornano a galla, io poi non ero ancora morto.
Il sangue venoso, quello sporco e povero, fluisce ancora verso il ventricolo sinistro, proprio lì ci si autoflagella per farsi più male e fare in modo che si reagisca prima al dolore, paradossalmente, ma non troppo, siamo sempre noi stessi che spingiamo le situazioni allo stremo, consci che solo così possiamo tornare a vivere. Freud dice che si tratta di depressione, e io vissi proprio quella sensazione, un rifiuto, inizialmente un gioco per eliminare quello che non volevo, poi il convincimento che non volevo nulla, forse che non potevo avere nulla. È il momento in cui vuoi stare male, perché solo in quella condizione puoi strisciare per terra, perdere la dignità e desiderare di riconquistarla. Passi giornate intere al computer senza costrutto alcuno, guardi la televisione fino alla mattina, dormi sul divano, mangi e ingrassi, tanto non è importante, generi un meccanismo che ti porta là dove in fondo vuoi, nel tunnel, e speri sia nero, che non ci sia alcuna luce prossima perché non sei ancora pronto per uscire.
Valeria intanto aveva avuto una bambina, la mia bambina, Josefina, nome che rivisitava l’arcaico Giuseppina della nonna con la quale avevo praticamente sempre vissuto dalla morte di mio padre, detta Mina, quale diminutivo di Fermina, mia madre, con la quale avevo praticamente vissuto fino alla morte di mio padre.
Fu estremo il nostro quarto anno, disperazione e felicità, il diavolo e l’acqua santa, grigio e rosa.
Il sangue, attraverso la valvola mitralica, passa all’orecchietta sinistra e si rigenera. Ecco il posto della coscienza piena e della conoscenza assoluta, il guarire da una malattia fortunatamente non endemica attraverso un forte processo autocritico che, con una serie di passaggi, ti induce a ragionare sul passato per costruire sullo stesso il futuro, che ti consente di vedere te stesso aprendo le ante di quell’armadio che è il tuo intimo, senza vergogna di guardare dentro, sopportando il tremendo olezzo dei cadaveri nascosti, avendo la forza e il coraggio di ricomporli e dargli più degna sepoltura, avendo cura di apporre una lapide e un cero sempre accesso, perché non è giusto dimenticare, solo il ricordo consente di superare gli errori e fa sperare di non commetterne altri.
In questa “casa di cura” dove mi trovo ora tutto questo è possibile, occorre solo la volontà di farlo, occorre comprendere che la vita può avere ritmi diversi e varrà comunque la pena di viverla, puoi contare chi ti vuole bene veramente, non odiando chi si allontana perché ha solo scelto la propria strada, imparare dalla eterogeneità dei malati come te che il principio di Voltaire o di Churcill, storica disputa, : “non sono d’accordo con quello che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu possa dirlo” vale e vale molto.
Ti accorgi ogni giorno che passa di quanto erano sbagliate o quanto meno superficiali certe affermazioni, acquisisci la certezza socratica di sapere di non sapere e sei sulla strada della guarigione. Adesso aneli a vedere una luce in fondo al tunnel, poter dire “cogito ergo sum”, ricominciare. Puoi ascoltare di nuovo la musica, commuoverti per una foto e piangere per un dolore, senza falso pudore, adesso che non devi dimostrare che vali ma valere veramente. È finito il tempo degli esami di riparazione, promosso o bocciato, agli altri l’ardua sentenza, tu non chinar la fronte ma vai e vivi, respira intensamente quel vento di libertà che soffia forte ed ha già spazzato la via del tuo cammino futuro.
Avrei voluto dire tutto questo a Valeria,  raccontarle cosa stava cambiando, ma era molto difficile, il processo è così lento nel proprio io che solo empaticamente si può percepire, noi non abbiamo avuto modo, essendo io degente, di passare insieme il tempo che serve per crescere e capire, per chiedere scusa ed essere perdonati.
Mina sta crescendo, a casa dei genitori è difficile vivere, il supermercato non fa credito, la vita è dura, materialmente dura, psicologicamente dura.
Io ho vissuto questo senso di impotenza, questa sensazione di inutilità, questi momenti di totale assenza. Ho pensato di essere tornato indietro, al ventricolo sinistro con sangue povero e depresso, ma ho superato l’ostacolo ragionando, cercando non di fare una ragione dello status, quanto fare il possibile perché lo status migliorasse. A volte ci sono riuscito, spesso no. Ma non ho mai smesso di lottare, ci ho creduto fino in fondo e impresso un ritmo alla mia esistenza che osservasse regole a tale fine propedeutiche.
Così è nata la mia giornata tipo, piena e intensa di contenuti strumentali, a fare di me una persona migliore per poterla consegnare a chi mi aspetta.
Io e Valeria non avremo un futuro insieme, ma abbiamo una figlia che entrambi amiamo, che mi ha visto in cura, ma essendo piccola forse non lo ricorderà, alla quale però non dovrò nascondere nulla perché non dovrò vergognarmi di avere avuto un debito e di averlo pagato, anche se è costato tanto, a tutti.
Sono questi il quinto, sesto e settimo anno della nostra storia.
Alle 13.00 ricevo una lettera, posta aerea, linee blu e rosse ai lati. L’apro con rinnovata curiosità e leggo quello che già in fondo sapevo, anche Valeria ha pensato di sfogarsi, e l’ha fatto con la crudezza di una mamma giovane e di una moglie ancora più giovane, che vuole vivere una vita felice.
Le rispondo raccontandole i miei pensieri, quelli che ho descritto in queste righe, la metto in guardia che per me sarà molto dura e se le dovesse anche solo sfiorare il pensiero di riprovare a vivere insieme lo sarà anche per lei. Fuori non mi aspettano fiori e champagne, ma fatica e acqua, tutti i giorni, per costruire quel poco che è rimasto dei sogni di un bambino che voleva comperare una castello e che, oggi, si accontenterebbe di un bilocale pulito in comodato d’uso in periferia.  Vorrei dire mille cose e comprenderne altrettante, ma sono preso da una sorta di afasia che mi induce semplicemente a scrivere: “io comunque ci sarò, per voi, sempre”.
Imbuco la lettera, compilo l’indirizzo in russo, avendo cura di riscrivere la nazione in lingua italiana, con il cirillico non si sa mai.
Poi il mittente e l’indirizzo: Casa di Reclusione Rebibbia Roma.


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il 7/2/2014


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