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“Quando hanno aperto la cella”, uomini e diritti uccisi dentro quelle carceri
Sonia Oranges intervista Luigi Manconi

Un’opera narrativa, un libro politico, una successione di storie di vita, dolore e morte di chi ha perso prima la libertà e poi la vita. Paradigmatici i casi di Cucchi, Mastrogiovanni, Aldrovandi, Pinelli, Uva. Un saggio per chiedere allo Stato di garantire l’incolumità dei suoi cittadini. S
embra la Spoon river di chi ha perso prima la libertà e poi la vita. Carceri, manicomi giudiziari, centri d’identificazione ed espulsione: in Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri (edito dal Saggiatore con prefazione di Gustavo Zagrebel - sky), il sociologo Luigi Manconi (che presiede l’associazione A Buon Diritto) e la ricercatrice Valentina Calderone raccontano la storia (e lo stato) della democrazia italiana attraverso storie e luoghi di privazione della libertà, da Giuseppe Pinelli a Stefano Cucchi.

 

 

“In tanti considerano il nostro volume come un’opera narrativa, prima ancora che saggistica - spiega Manconi - Ci pare un effetto positivo perché, in una cornice storica e sociologica, abbiamo inserito una successione di storie di vita, dolore e morte che rappresentano la materia reale che dà un senso al quadro”.
Storie di vita, dolore e morte raccontate evidenziando, attraverso una cura certosina della documentazione, la dimensione biografica dei protagonisti: “Sono vicende che rimandano a fenomeni solitamente relegati nelle statistiche o rinchiusi nelle colonne della cronaca nera. In entrambi i casi, i soggetti sono ridotti a una successione di episodi critici e di fatto trasformati in cose, privati di identità e corpo”. Con la scelta di una scrittura narrativa, invece, gli autori si prefiggono di restituire ai protagonisti proprio il corpo e, dunque, l’identità che la morte ha cancellato, lasciandone solamente l’esito tragico, cui nel libro invece fanno da contrappeso la gioia, le speranze, gli affetti e gli amori di queste vittime.
“È un libro politico, perché io sono un politico a tempo pieno e intendo la mia ricerca sociologica e il mio impegno culturale sempre nella dimensione dell’iniziativa pubblica e politica - aggiunge Manconi - E anche la coautrice, valente ricercatrice ventisettenne, pur non avendo una storia di militanza politica, condivide questo piano come
fondamentale”. Così, partendo dagli istituti, dai luoghi e dalle norme legati alla privazione della libertà individuale, ampliati fino a creare quel circuito integrato che Michel Foucault chiamava del “sorvegliare e punire”, gli autori parlano della democrazia italiana: “Sia ben chiaro, i buoni sentimenti riguardano la sfera individuale di ognuno di noi, mentre lavori come questo o come quello che svolgiamo con A Buon Diritto hanno una finalità pubblica e, dunque, politica”.
Ma come sta la democrazia? Manconi suggerisce tre casi, tra i tanti narrati nel volume, a paradigma dello stato dell’arte: Giuseppe Uva, Francesco Mastrogiovanni e Federico Aldo - vrandi: “Uva e Mastrogiovanni sono morti senza che prima gli sia stato imputato alcun reato. Mastrogiovanni, è stato soggetto a trattamento sanitario obbligatorio per un infrazione automobilistica e dopo alcuni atteggiamenti di trasgressione (per rifiutare il Tso è rimasto nel mare del Comune di Pollica per un paio d’ore, ndr). È stato tenuto in un letto di contenzione per 80 ore finché non è morto di edema polmonare.
A Uva, invece, hanno comunicato una contravvenzione per aver spostato alcune transenne nel mezzo di una strada di Varese, in stato etilico. La comunicazione è arrivata solamente dopo la sua morte. Anch’egli è stato sottoposto a Tso e gli sono stati somministrati farmaci controindicati al suo stato, che ne hanno causato la morte. Non è solamente il carcere dunque, uno dei luoghi di privazione della libertà, ma anche i Cie, o semplicemente la strada, come nel caso di Federico Aldovrandi che tutti conosciamo”.
E ora il sistema del “sorvegliare e punire”, lungi dal tramontare, trova nuove incarnazioni. “Negli ultimi tre mesi la toponomastica e i dizionari dei centri per immigrati e profughi si sono ampliati e diversificati - ricorda Manconi - Si è passati da un ventaglio di nomi corrispondenti a luoghi per definire le sedi dell’accoglienza, che andavano dai Cpt ai Cie, alla totale confusione”.
La cesura è stata l’ultima crisi sull’isola di Lampedusa quando i centri si sono moltiplicati con nuove quanto provvisorie e occasionali specificazioni da introdurre per decreto: “Attraverso nuove denominazioni si è definita l’incapacità di una programmazione politica della materia. Con Lampedusa è saltato tutto il sistema e il Governo e il ministro dell’Interno Roberto Maroni hanno perso la testa”.
Simbolo di questa disfatta è stato il campo di Manduria che nessuno sapeva cosa fosse in termini di qualificazione amministrativa: “Importava solamente identificare dei luoghi sorvegliati, non sempre sicuri, dove rinchiudere quei cittadini dal destino incerto. Un paradosso per cui i migranti trattenuti in questi luoghi non possono allontanarsi, ma se riescono a fuggire non possono essere sanzionati perché, formalmente, non sono detenuti”. Luoghi nei quali, al contrario che in carcere (che pure si trova ben più in alto nella scala dei luoghi di coercizione), a nessuno è permesso entrare e in cui non vige alcun regolamento: “Ecco dunque crearsi il sistema che si traduce in una successione di interdizioni, veti e divieti che creano un meccanismo esteso e articolato, anche se non immediatamente coercitivo. Vale per i Cie come per il Tso, prima ancora che per i penitenziari”.
Un sistema specchio di un’impostazione culturale che viene da lontano. Non a caso, la galleria di Manconi e Calderone si apre con un capitolo dedicato a Giuseppe Pinelli, morto il 15 dicembre 1969, introdotto dalle parole a lui dedicate nel 2009 dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano: “Un nome, un uomo, di cui va riaffermata e onorata la linearità, sottraendolo alla rimozione e all’oblio”. Parole che fanno il paio con quelle di un ex inquilino del Quirinale, Oscar Luigi Scalfaro, richiamato nel capitolo dedicato alla morte di Salvatore Marino (2 agosto 1985): “Un cittadino è entrato vivo in una stanza di polizia ed è uscito morto”.
Segno che, nonostante tutto, nella percezione del “sorvegliare e punire” il tempo ha avuto il suo peso. “Nel ‘69, Napolitano stava dalla parte quasi opposta di Pinelli - sottolinea Manconi - Il Pci riteneva seriamente che Valpreda fosse colpevole e Pinelli non suscitava grande interesse. Eppure, Napolitano nel 2009 ha deciso che dopo 40 anni era giunto il momento di rendergli giustizia. Probabilmente, senza il discorso del Capo dello Stato Pinelli non avrebbe trovato spazio in questo libro. Per la stessa ragione per cui ho voluto citare Scalfaro, l’unico ministro dell’Interno che in 60 anni abbia pronunciato parole simili, riferite alla morte di un sospettato di un omicidio di mafia”.
Nel libro, insomma, non si dibatte la modalità della morte di Pinelli (come di Marino), ma la necessità di spiegare le dinamiche di avvenimenti come quelli, per cancellare qualsiasi dubbio in proposito. “È a piazza Fontana che comincia la storia contemporanea del Paese, con gli anni della massima mobilitazione sociale, la volontà di trasformazione e, insieme, con gli arroccamenti istituzionali di fronte alla difficoltà di tradurre la domanda di libertà in riforme. Una spinta straordinaria che ha prodotto anche il terrorismo di sinistra e lo stragismo”.
Un passaggio che sul piano della difesa dei diritti ha portato in qualche maniera a un arretramento: “Dal 1972 in poi, gli abusi non si denunciavano più, per timore di fare il gioco dei terroristi. Criticando gli apparati si rischiava di mettere sullo stesso piano Stato e antistato. Da allora a oggi, dunque, è difficile rilevare statisticamente le variazioni nei casi di abuso sui soggetti privati della libertà - spiega ancora Manconi.
A mio avviso, però, se c’è stata una riduzione, non è significativa. Semmai c’è una maggiore consapevolezza dei diritti e, dunque, maggiori denunce. Ma non c’è un analogo grado di ascolto da parte delle istituzioni e dei media”. Il j’accuse, però, non è rivolto in maniera generalizzata agli apparati preposti alla funzione di “sorvegliare e punire”: “Siamo riformatori radicali, non antagonisti.
Viviamo in uno Stato democratico che è tale ma in cui vi sono ancora manifestazioni autoritarie, spazio per la violazione dei diritti, ambiti dove prevalgono pulsioni antigarantiste. Pretendiamo invece, che lo Stato sia democratico fino in fondo. Uno Stato pienamente legittimato chiede ubbidienza ma garantisce l’incolumità dei suoi cittadini. Ma se lo stato diventa una minaccia per i suoi membri, rischia di non essere più riconosciuto”.


Il Riformista 23 maggio 2011

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" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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