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I sogni di Patrick

 


Mi chiamo Patrick A., ho trentun anni. Vengo dalla parte orientale della Nigeria e sono il quarto di dieci figli.
Dopo la scuola elementare decisi che sarei diventato sacerdote. Mio padre accolse con gioia l’idea e mi mandò in seminario. Dopo sei anni però mio padre morì e con lui il mio sogno di diventare sacerdote: per continuare gli studi in seminario occorrevano soldi e noi eravamo ormai poveri.
Mia madre aveva un piccolo magazzino dove vendeva provviste, ma quello che guadagnava serviva a stento a sfamare dieci figli e non poteva certo bastare a pagare gli studi.
Nel giro di un paio d’anni la nostra situazione economica era così precipitata che io dovetti lasciare la mia famiglia per andare a cercare lavoro. Avevo ormai quindici anni e dovevo aiutare mia madre. Aveva sofferto abbastanza e senza il mio aiuto avremmo finito per morire tutti di fame. Andai a Lagos, la capitale.
I primi sei mesi furono l’inferno e la solitudine. Non conoscevo nessuno, non avevo casa, dormivo sotto i ponti, mangiavo con le mani. Ma ero determinato a restare. Da bambino avevo sentito molte storie su Lagos, alcune affascinanti, altre spaventose. Si diceva che fosse una città di divertimento e sofferenza, per mendicanti, borseggiatori e veri ricchi.
Una sera dopo circa sei mesi, ero sotto al ponte che consideravo la mia casa pensando alla mia miserabile esistenza quando sentii chiamarmi per nome. Mi girai e vidi davanti a me un uomo ben vestito e robusto. Impiegai trenta secondi per riconoscerlo. Era Mr. Patrick Ugwaka, il senior prefect  del primo anno di seminario. Rimase molto sorpreso quando gli dissi che dove mi aveva incontrato era la mia abitazione e mi condusse subito da lui. Per la prima volta da quando avevo lasciato la mia casa, mi sentii un essere umano, mangiai buon cibo e dormii bene. Per la prima volta da quando l’avevo lasciata, sognai la mia casa e il tempo in cui ci vivevo con mia madre.
Il giorno dopo Mr. Uguwaka mi disse che era un avvocato. Mi condusse nel suo ufficio a Ikeja, una delle più ricche città nella zona di Lagos. Aveva un grande ufficio e molti clienti ma non furono queste le cose che mi colpirono quanto piuttosto la sua sicurezza. La fiducia in se stessi, si dice, fa un uomo. Pensai che mi sarebbe piaciuto diventare un avvocato come lui per difendere i diritti dei poveri, degli indifesi, degli orfani. Ma come avrei potuto, senza soldi, diventare un avvocato? Come avrei potuto diventare avvocato quando mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle, giù a casa,stavano morendo di fame?
Mr. Ugwuaka mi diede 50.000 naira, circa trecento euro. Mi presentò anche ad un uomo d’affari, un commerciante in prodotti elettronici. Divenni un commerciante. Ero molto felice perché riuscivo a mandare soldi a casa a mia madre e a pagare le tasse scolastiche dei miei fratelli. Ma non riesco a dimenticare quando mi arrivò la notizia della la morte della maggiore delle mie sorelle. Si era ammalata durante il periodo in cui dormivo sotto il ponte e non c’erano soldi per curarla in ospedale. Dopo fu troppo tardi. Piansi di dolore e rabbia quando seppi della sua fine.
Grazie al denaro datomi da Mr. Ugwuaka la mia posizione cambiò radicalmente e nel giro di un anno divenni del tutto indipendente al punto da non dover più prolungare la mia presenza a casa sua. Presto affittai un appartamento per conto mio, rassicurato dal fatto che i miei avevano cibo sulla tavola che i miei fratelli andavano a scuola..
Lasciai Lagos per Kaduna dove il business nell’elettronica andava meglio. Kaduna è uno stato musulmano e gli affari vanno molto bene lì. Invece rappresentò la mia rovina.
Un bambino di cinque anni fu accusato di usare pagine del Corano come carta igienica e questo scatenò l’inferno. I musulmani iniziarono ad uccidere i cristiani perché il ragazzino era cristiano. Lui e la sua famiglia furono le prime vittime. Più di cinquemila persone furono uccise nella rivolta, case e villaggi dati alle fiamme. Io persi lavoro, soldi ed ogni cosa possedessi. Ero fortunato ad essere ancora vivo. Quando la situazione tornò normale, andai a casa. Dovevo ricominciare tutto da capo, non avevo né soldi né lavoro.
Fu allora che sentii parlare di tutti quelli che erano emigrati, entrando in Europa attraverso alcuni stati del Nord Africa. Mia madre all’inizio non approvò l’idea, ma poi quando le dissi che in Europa avrei potuto trovare un lavoro, mi sarei sistemato e avrei risolto tutti i problemi familiari si disse d’accordo, sia pure a malincuore. Mi diede dei soldi che aveva messo da parte di quelli che le avevo mandato quando lavoravo a Lagos.
Mia madre, molto cattolica, è membro attivo di un’associazione conosciuta come gruppo San Cristoforo. Prima di partire mi diede la medaglia che il gruppo le aveva assegnato come riconoscimento del suo impegno dicendomi che nulla di davvero cattivo mi sarebbe potuto accadere fino a quando avessi portato la medaglia.
Partii per Libia. Eravamo ventidue ma solo in dieci riuscimmo ad entrare nel paese, gli altri morirono nel deserto. Il primo giorno di viaggio le cose andarono bene, ma dopo un po’ iniziammo ad avere delle difficoltà. La peggiore fu la mancanza di acqua di potabile. Eravamo così assetati che avevamo iniziato a bere la nostra urina. Non avevamo acqua né cibo, eravamo stanchi, stavamo per morire. In cuor mio pregavo Dio di prendersi la mia anima così avrei potuto dare pace al mio corpo. Quando morì la decima persona io desiderai essere il prossimo, ero così sfinito che sentivo di non potercela fare. Dopo una sosta, al momento di riprendere la marcia io non mi alzai. Nessuno mi aspettò perché tutti erano troppo impegnati a cercare di salvarsi, per pensare a me. Rimasi solo e pregai Dio di darmi una morte rapida. Credevo mi sarebbe restato poco tempo e invece… mi svegliai ancora alla prima luce del giorno. Mi sentivo strano rispetto a qualche ora prima. Decisi di continuare e soprattutto di cercare il mio gruppo. Infatti se non lo avessi trovato sarei ugualmente morto visto che non conoscevo la strada..
Quando mi alzai scoprii che riuscivo a fatica a muovermi: ogni cosa mi pesava, gli stivali, gli abiti, l’orologio da polso e, soprattutto, la medaglia di San Cristoforo. Per potermi muovere, dovevo liberarmi di qualcosa. Gli stivali erano importanti per la sabbia bollente, gli abiti erano importanti, non potevo mica andare nudo. Dovevo rinunciare all’orologio e alla preziosa medaglia di San Cristoforo, dono di mia madre. Chiesi a Dio di perdonarmi ed anche a mia madre che era molto lontana e non poteva ascoltarmi. Ripresi a camminare. Ritrovai il gruppo dopo due giorni.
Quando li vidi non sapevo che la triste storia era ancora all’inizio: da undici erano rimasti in nove, altri due non ce l’avevano fatta.
Entrammo in Libia. Dopo alcuni mesi ebbi soldi sufficienti per entrare in Marocco dove rimasi un anno prima di raggiungere la Spagna. Mi trattenni solo una settimana deciso a raggiungere l’Austria attraverso l’Italia.
A Roma acquistai il biglietto e presi un treno per Vienna, ma durante il viaggio fui fermato dalla polizia austriaca. Addosso avevo solo il biglietto Roma-Vienna così mi accompagnarono in Italia e mi consegnarono alla polizia. Mi presero le impronte digitali e mi chiesero da dove venissi. Per paura di essere rimandato in Nigeria mentii. Diedi un falso nome e dissi di essere della Sierra Leone. Mi diedero cinque giorni per lasciare il paese. Da Udine tornai a Roma. Grazie a Dio era domenica ed incontrai delle persone dirette alla comunità nigeriana di Piazza Argentina. Là trovai gente della mia tribù e uno di loro mi accolse in casa. Finalmente potei telefonare alla mia famiglia. Raccontai a mia madre tutto quello che mi era accaduto dal primo giorno che avevo lasciato la Nigeria. Lei mi disse che dopo tutto quel silenzio, quando qualcuno le aveva detto che ero morto aveva finito per crederci. Dopo la disperazione, ora si sentiva rinascere.
Il giorno successivo iniziai il vu-cumprà business. Scelsi di farlo perché gli amici che mi ospitavano mi dissero chiaramente che erano tre le cose che potevo fare. La prima era quella di lavorare, ma senza documenti non avrei trovato un’occupazione. La seconda era il droga business, ma era contrario ai miei principi. Mio padre ci aveva insegnato a rispettare la legge e a vivere onestamente e mia madre mi aveva messo in guardia contro queste tentazioni prima che lasciassi la Nigeria.
Così non mi restava che il vu cumprà business.
Io avevo viaggiato, conosciuto gente di tanti paesi, ma gli italiani sono davvero diversi. Sono gentili, attenti, generosi e molto umani. Con la mia borsa piena di calzini, pantaloni, tee shirt e tovaglie andavo a suonare i campanelli delle loro case, entravo nei negozi nei supermercati e invece di essere arrabbiati per questa invadenza, anche se non sempre compravano, mi regalavano da uno a cinque euro. Mi ricorderò sempre di quell’uomo che acquistava merce per venti euro ogni settimana. Dopo tre mesi mi portò dentro il suo ufficio e mi mostrò una scatola piena di merce acquistata da me e da altri come me. Mi disse che lui non ne aveva bisogno, ma la donava periodicamente alla Caritas. Fui davvero sorpreso. Pregai per lui e prego ancora Dio di proteggerlo perché possa continuare nel suo caritatevole impegno. Grazie al lavoro di vu cumprà riuscii a pagare la mia parte di affitto, a partecipare alle spese e a mandare i soldi a casa.
Nel 2002 ci fu una grande sanatoria per gli immigrati. Io trovai lavoro in un negozio di nigeriani alla Stazione Termini. Venivo pagato davvero poco ma pensavo che almeno avevo un lavoro in regola. Nell’ottobre 2003 ottenni i documenti, ma l’anno successivo, in aprile, persi il lavoro. Il mio principale mi disse che con quello che guadagnava non avrebbe potuto ancora a lungo pagarmi il salario. Mentre cercavo un nuovo lavoro, ripresi a fare il vu cumprà. Alla fine del 2004 avevo un nuovo impiego nella catena Panorama. Andavo da un supermercato all’altro pressando i cartoni.
Dopo sei mesi di questa vita mi diedero un posto stabile. Dopo altri sei mesi mio fratello maggiore venne in Italia dalla Nigeria e mia madre mi chiese di cedere il mio posto a lui. In cambio promise però che a sua volta mi avrebbe trovato un’altra occupazione una volta sistemato. Non avevo scelta, tornai a fare il vu cumprà.
Il primo maggio 2006 ricevetti la telefonata che ha cambiato la mia esistenza, ha distrutto la mia vita e i miei sogni. Si, i miei sogni, perché ne avevo ancora, volevo studiare legge e diventare avvocato, qui in Italia. Era mia madre e mi chiamava dall'ospedale. Aveva scoperto di avere una grave malattia respiratoria oltre che il diabete. Partii per la Nigeria il 4 maggio e il 5 ero in ospedale. I medici mi informarono della situazione. Mia madre non aveva ancora iniziato la terapia di cui aveva bisogno perché bisognava pagarla 200.000 naira, circa 1.100 euro. Dopo l'acquisto del biglietto me ne erano rimasti solo100: li versai come acconto all'ospedale, con la promessa che entro pochi giorni avrei saldato il debito. Da una parte ero preoccupato perché non avevo la minima idea di come avrei fatto a procurarmi quei soldi, dall'altra sollevato perché mia madre avrebbe ricevuto le cure di cui aveva bisogno. E poi ero felice anche perché ero a casa con la mia famiglia dopo sei anni di lontananza.
Avevo un amico fraterno in Olanda e tramite suo fratello riuscii a rintracciarlo. Fu felice di sentirmi perché da anni cercava di avere mie notizie. Gli raccontai tutte le mie disavventure, della malattia di mia madre, gli chiesi 2000 euro in prestito. Lui non li aveva ma poteva risolvere i miei problemi se avessi accettato di fare una cosa per lui. Semplice: si trattava di contattare un amico a Bologna, prelevare 7 chili di cocaina e portarli a Roma da un’altra persona che in cambio mi avrebbe dato i 2000 euro. Molto rischio, pochi soldi, ma erano quelli che mi bastavano, quelli di cui avevo assoluto bisogno. Accettai.
Prima di partire per Bologna pregai. Da bambino, appena iniziai a parlare, la prima cosa che mi insegnarono i miei genitori fu pregare. Avevo imparato a pregare qualunque cosa stessi facendo ma per la prima volta in vita mia Dio non mi rispose. La Bibbia dice che quando preghiamo e non riceviamo risposta è perché abbiamo chiesto qualcosa di sbagliato. Mia madre, anche se ammalata e sofferente nel suo letto, non avrebbe mai voluto che accettassi una simile proposta.
Eseguii le istruzioni alla lettera: presi la droga a Bologna, la portai a Roma, chiamai l'uomo che la stava aspettando, andai nel luogo che mi aveva indicato per prelevarla e là, invece dei soldi, trovai la polizia.
Mi arrestarono e fui condannato a tre anni.

Patrick A. (tratto da Il Gabbia.no, periodico della casa circondariale di Civitavecchia, n.34/2007)

 

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