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Il sapore della cenere
Regia di Juan Diego Puerta Lopez
di Sara Medici

Il sapore della cenere è un testo documentario di Ariel Dorfman tratto dal libro Speak truth to power di Kerry Kennedy, ed è andato in scena al teatro Eliseo di Roma il 19, 20 e 21 maggio per la regia di Juan Diego Puerta Lopez.

Quando le luci si spengono sui due schermi contigui che si stagliano dietro ad una scenografia costituita essenzialmente da sette bascule nere, appare il volto di Alessandro Preziosi che apre la scena con queste parole: “ è dalla voce che nasce il coraggio, ho fatto ciò che andava fatto, tutto il resto avrebbe avuto il sapore della cenere.” Si accendono le luci, bianche, illuminano impietosamente la scena; tre attori vestiti di nero sdraiati sulle bascule reclinate; sopra di loro, in piedi, altri tre attori, col volto coperto, muniti di bastoni che si abbattono implacabili a lato delle tavole; provocano un rumore sordo, ritmato, che si confonde col battito del cuore che senti nel petto mentre assisti all’atto più disumano che l’umano possa compiere, la tortura.
Eppure in questo “gioco al massacro” è già presente la poesia dell’arte, unico luogo in cui è possibile che dei bastoni, atti a procurare dolore, divengano gli strumenti musicali attraverso i quali scandire il ritmo di una danza, in cui i corpi degli attori si contraggono e si rilassano, in cui i busti si alzano e si abbassano, per minuti che sembrano interminabili, al ritmo dettato dalle percosse.
Poi, la morte; cessano i colpi, cessa la danza, e in questo silenzio inquietante i corpi esanimi vengono deposti; un re gobbo, che scuote una campana e che ha in mano un grosso bastone con cui dà ritmo ai propri passi, entra in scena e pone sulla bocca delle vittime fiori colorati. Macchie policrome che si stagliano sul colore nero che fa da sfondo a tutto lo spettacolo. Spettacolo in cui la perfetta armonia corale è sottolineata sia dalla grande sintonia interpretativa del gruppo di attori, che si muove sulla scena come divenisse un unico corpo, sia dalla tenuta di tutte le componenti artistiche, dall’ incisiva scenografia di Francesco Scandale, alle musiche di German Arrieta e Giuliano Lombardo, alle luci di Dino Iovanniti.
Così sono tutte le arti insieme, condotte dalla sapiente orchestrazione del regista, Juan Diego Puerta Lopez, a tradurre verso il pubblico una fortissima tensione che, raggiunto l’apice, si stempera in un lirismo poetico di squisita raffinatezza dove, sul nero dello sfondo, affiora il colore bianco della cenere, che gli attori soffiano via, in un gesto che sembra voler sottolineare l’insopprimibile libertà della voce umana.
La prima scena, così, si chiude con i carnefici che prendono in bocca i fiori deposti sulla bocca delle loro vittime, quasi come se le baciassero, come se di fronte alla morte, fra vittime e carnefici, vi fosse una sorta di comunione.
A questo punto si può dire abbia inizio uno spettacolo il cui scopo è rendere la voce ad una lunga serie di figure che combattono, nei loro paesi, per i diritti umani; tra di esse ve ne sono alcune internazionalmente note, ma la maggior parte di questi ostinati oppositori del potere è per lo più sconosciuta al di là dei confini nazionali in cui opera, come l’ambientalista femminista dal Kenya Wangari Maathai, o l’ ex schiava sessuale e ora leader abolizionista Juliana Drogbadzi, dal Ghana, o Gabos Gambor, avvocato per i diritti dei disabili mentali in Ungheria, e oltre trenta ancora. Ma per noi, spettatori del dramma che si consuma nel mondo, chi sono queste persone? Nomi.
Soltanto nomi, come ci ricordano i due carnefici vestiti di giallo che, pur nella loro apparente libertà, sono in realtà imprigionati in due banchetti, posti ai lati del palco, sono gli unici a non partecipare alla danza collettiva che prende forma nel momento in cui le voci tacciono; essi non si muovono, ma parlano, giudicano, si alzano, si siedono, deridono e ripetono per tutto lo spettacolo: “ gliel’avevamo detto che tanto non importa niente a nessuno, gliel’ avevamo detto…”, e rivolgendosi a noi - noi, senza i quali nessun dramma potrebbe essere - dicono: “ ciò che temono di più è proprio questo, che non importi nulla a nessuno ” e lo ripetono, lo ripetono fino allo sfinimento, fino al momento in cui tu, spettatore, che sei seduto, come loro, sulla poltrona del teatro, vorresti alzarti e gridare “a me importa”, ma non lo fai, perché, forse, pensi che saresti l’unico a farlo, così rimani seduto e guardi, e aspetti, come un condannato a morte che attende al buio l’ora della verità; e continui ad ascoltare le voci di questi eroi moderni che ti fanno incontrare un bambino africano di sette anni strappato al suo sonno nel cuore della notte e costretto a dare fuoco alla propria casa, ai propri genitori e poi portato via, a fare il soldato, o un ragazzo che si uccide essendo stato costretto a violentare la madre, o dei cinesi che scontano la loro pena nei Laogai, i nuovi Gulag, campi il cui nome significa “ lavoro che riforma ”, dove i detenuti producono quelle merci a basso costo che tanto ci danno fastidio e che metteranno, prima o poi, in ginocchio l’economia occidentale.
Così non sono solo le personalità rappresentate ad essere protagoniste di uno spettacolo magnifico, che è capace di insinuare nel pubblico un’ inquietudine profonda proprio grazie alla potenza della sua poesia, ma anche il coro silenzioso dei dannati della terra, a cui è permesso uscire dal silenzio grazie a questi difensori dei diritti umani, che possono parlare a noi, gli spettatori del dramma, tramite l’arte del fare teatro, la quale ha la forza di restituire la voce a quei volti di uomini e di donne, altrimenti muti, che appaiono sugli schermi ogni qual volta l’attore avanza sul proscenio separandosi da un coro la cui funzione, derivata dalla tragedia greca, è quella di sapere e trasmettere la coscienza-sapienza comune. Infatti questi difensori dei diritti umani sanno, sanno una cosa semplice, ma fondamentale, che ripetono per tutto lo spettacolo in risposta ai loro carnefici che urlano: “ tanto non importa niente a nessuno ” loro si chiedono candidamente, con umiltà, svestendo i panni degli eroi che spesso gli vengono assegnati dai media occidentali:
“ se non lo facciamo noi chi lo fa?  ”, “ Noi la luce l’abbiamo vista, l’abbiamo vista molte volte, se non lo facciamo noi chi lo fa? ” E ognuno di loro ci parla di una forza interiore che soverchia la paura della morte, per citarne solo uno: Desmond Tutu, dal Sud Africa, che afferma : “ Il mio Dio non dice: “ Oh poverino! ” No, il mio Dio dice: “Alzati! Provaci ancora!”, Dio dice: “ la vita è una sola. Questa!, Perciò andiamo avanti, sapendo…sapendo… ”
È così che sullo sfondo del dramma barbarico dell’umanità, dell’odio dell’uomo verso l’uomo, si staglia la forza dell’amore di tanti, donne e uomini che non tacciono, a cui importa; esseri umani che alzano la voce per difendere i loro simili da un potere che non li potrà veramente uccidere fino al giorno in cui qualcuno li ascolterà, fino al giorno in cui la loro voce risuonerà; così lo spettacolo prosegue con l’apparizione sugli schermi del volto di Enrico Lo Verso che ripete: “ è dalla voce che nasce il coraggio, ho fatto ciò che andava fatto, tutto il resto avrebbe avuto il sapore della cenere ”.
È quasi come se ora, nel finale, fosse il regista stesso, Juan Diego Puerta Lopez, a dire che il suo teatro, la sua arte, non può far altro se non essere il canale attraverso cui testimoniare e trasmettere questa forza d’amore che esiste, che è verità detta contro il potere e contro gli autoinganni di chi è spettatore della vita; così l’ultima voce che sentiamo è di Piera Degli Espositi e si leva, mentre già gli attori sono usciti di scena, come si staccasse dal coro dionisiaco, dicendo: “ C’è una luce, c’è una luce; ho fatto ciò che andava fatto sapendo…sapendo…”
Si spengono le luci, scrosciano gli applausi; a questo punto tu, che eri lo spettatore, rientri nella vita e ti rendi conto di sapere una cosa molto semplice, ma talmente difficile che l’uomo quasi mai non la comprende, o la vuole comprendere; sai che se non sei tu, se non siamo noi esseri umani tutti insieme ad amare disinteressatamente “ chi lo fa? ”; così sei costretto ad una scelta: o liberarti dal giogo del potere, essere parte del coro di satiri danzanti, e ascoltare la sapienza – coscienza d’amore che porti dentro, o rimanere seduto al banchetto e vivere una vita certa, sicura ma che lascia in bocca il sapore della cenere.


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