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AAVV, Quella volta che… La Polizia Penitenziaria si racconta, Laurus Robuffo, Roma, 2009
Recensione di: Corrado Ferioli

Per un uomo detenuto da quasi vent’anni non è stato semplice leggere e poi recensire un libro, Quella volta che …, scritto da personale della Polizia Penitenziaria, principalmente perché ha significato andare oltre i pregiudizi e le esperienze personali, concentrandosi solo sul libro. Penso di esserci riuscito.
Ho notato sin dalle prime pagine una sostanziale diversità tra i racconti del personale maschile e quelli femminili. I primi sono meno propensi a esporre i propri veri sentimenti, limitandosi molto spesso a raccontare dei disagi e delle difficoltà del lavoro; in alcuni casi si esprime solo l’orgoglio di appartenere al Corpo, passando per il cameratismo e ponendo una sorta di sottile velo tra quello che si prova e quello che si fa durante il lavoro. Nei secondi, invece, si coglie una maggiore disponibilità a esporre i propri sentimenti, anche di rabbia, di paura o di inadeguatezza rispetto alle incognite del primo giorno di lavoro; molti dei racconti al femminile si riferiscono ai primi giorni di servizio. Nel complesso ritengo molto più sentiti e autentici i racconti del personale femminile, che evidenziano una minore rivendicazione dell’appartenenza al Corpo e del cameratismo.
Un elemento comune a tutti gli operatori, presente in molti racconti, è il riferimento agli odori e ai rumori del carcere, sottolineato in molti testi come una scoperta di sensazioni mai provate prima nel corso della vita.
Due racconti meritano una citazione particolare, dell’Ass. Capo Simone Urso e della Vice-Sovrint. Irene Nastasia. Il primo, nella parte finale, fa una pesante critica a tutto il sistema penitenziario partendo dalla base dello stesso, citando espressamente l’operato di un superiore che per ottusità mentale applica il regolamento anche quando sarebbe stato opportuno usare il buonsenso, e disapprova anche il modo in cui vengono trattati i detenuti, ridotti quasi a dei bambini dell’asilo, a cui viene sistematicamente appiattita la personalità, invece di esaltare le peculiarità positive che regnano in ogni uomo. L’altro racconto lo cito perché rappresenta la partecipazione umana e impotente del personale a una tragedia familiare, in cui un padre si sente peggiore della figlia detenuta per l’uccisione del resto della famiglia.
Ritengo questo libro molto positivo: nonostante alcune zone d’ombra della vita di un carcere che per ovvie ragioni non vengono esposte, è un ottimo tentativo di parlare del carcere.
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il 7/2/2014


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