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Gli Indifferenti
Alemanno denuncia l'omissione di soccorso per l'infermiera romena. Raccoglie ciò che ha seminato
Luigi Manconi
Politicamente correttissimo - il Foglio 19 ottobre 2010
Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, non se ne fa (e non ce ne fa) mancare una. L’ultima è stata la minaccia di denunciare per “omissione di soccorso” i passanti che non si sarebbero fermati ad aiutare Maricica Hahaianu  l’infermiera romena colpita a morte da Alessio Burtone nella metropolitana di Roma.
Alemanno è solo l’epigono più modesto di una sgangherata ondata di ipocrisia sollevata da quell’omicidio. Le sue parole, tuttavia, meritano attenzione: a pronunciarle è stata, infatti, la medesima persona che appena ieri parlava di Trattamento sanitario obbligatorio (!) per i “vagabondi”; e che solo due anni fa, proponeva  un’ordinanza  contro il “rovistaggio nei cassonetti” da parte di quanti vi cercano avanzi di cibo. Se vagabondi e rovistatori vengono presentati come minacce sociali e come individui da sanzionare (attenzione: non perché commettono reati, ma in ragione della loro condizione esistenziale) perché mai il cittadino non dovrebbe averne paura? E perché quello stesso cittadino, scorto per terra qualcuno di cui ignora lo stato dovrebbe chinarsi a soccorrerlo? Insomma, tutto quell’indecente chiacchiericcio sulla “indifferenza” mi è sembrato semplicemente immorale. Prima si crea indifferenza per via istituzionale e, poi, ci si straccia le vesti al suo manifestarsi. Analogamente, molti hanno evidenziato come al giovane romano, responsabile della morte dell’infermiera, fossero stati concessi gli arresti domiciliari. Forse perché la vittima è una straniera e l’omicida è un italiano? Questa domanda è, suggestiva quanto perversa. Intanto perché, quando è sopravvenuta la morte della Hahaianu, per Burtone è stata subito chiesta la reclusione in carcere a seguito del nuovo capo d’imputazione (omicidio preterintenzionale); e, poi, perché tra quanti hanno evidenziato il trattamento troppo mite nei confronti di Burtone, nessuno ha protestato né ora né all’epoca per il trattamento, troppo severo, inflitto a Doina Matei, la donna romena responsabile della morte di Vanessa Russo, sempre nella metropolitana di Roma (29 aprile 2007). La Matei è stata condannata a sedici anni (confermati dalla Cassazione nel gennaio 2010): e si tratta di una condanna particolarmente severa per un omicidio preterintenzionale avvenuto in circostanze controverse. Il clima che  accompagnò quel fatto ebbe un ruolo determinante (ricordo il titolo di un quotidiano “ragazza rumena uccide italiana”): gli “imprenditori politici della paura” cercarono di innescare un conflitto razziale laddove si era consumata, in tutta evidenza, una infelicissima tragedia urbana. Una vicenda dove il caso avrebbe potuto invertire specularmente le parti, collocando la vittima al posto dell’assassina. E infatti pochi appresero, all’epoca, che Vanessa Russo veniva da una storia di tossicodipendenza e si trovava in terapia metadonica. Questo dato biografico ce la rendeva ancora più cara: anche lei, come Doina, aveva conosciuto l’asprezza e il dolore del vivere. E invece proprio quel particolare (la tossicodipendenza) suscitò all’epoca, per esempio in Alessandra Mussolini, una reazione sconsiderata: “adesso vogliono infamare la vittima per scagionare l’assassina”. Quasi che la condizione attuale o trascorsa di tossicodipendenza fosse un tratto diffamatorio o penalizzante. E, in effetti, è quella la lettura della tossicomania che tende oggi a prevalere. Più in generale sembra affermarsi l’idea preliberale che condizioni esistenziali e modi d’essere (immigrato irregolare, vagabondo, nomade, alcolista…) debbano essere classificati come fattispecie penale. Le grandi categorie dello stato di diritto, come quella di offensività (capacità di produrre danno a terzi e a beni giuridicamente protetti), vengono abbandonate a favore di una concezione pan-penalistica della vita sociale. In altre parole, perché non considerare reato il rovistaggio nei cassonetti? E se così fosse, chi mai si chinerebbe, come un buon sammaritano, sul corpo abbandonato per terra di un “rovistatore”?  Ma le storie incrociate di Maricica Hahaianu, Alessio Burtone, Doina Matei e Vanessa Russo ci dicono molto altro. E rappresentano una sorta di parabola sapienziale (non so se religiosa o laica). Essa permette infatti di leggere, in quelle figure di vittime-carnefici, la grande questione del Male e — per rimanere alla nostra portata — il problema sociale della violenza e della responsabilità, del crimine e della colpa, secondo un canone che è crudamente fattuale e, insieme, intensamente profetico. Quelle storie ci dicono inequivocabilmente che la ripartizione netta del mondo, e di conseguenza dell'organizzazione sociale, tra "buoni" e "cattivi" non è semplicemente difficile (o meglio, impossibile): corrisponde, né più né meno, che a un inganno ideologico (o religioso o culturale o antropologico). La realtà è un’altra. Uomini e donne sono un impasto misterioso e inestricabile di virtù e vizi, di pulsioni aggressive e sentimenti pacifici, di volontà di potenza e di disponibilità alla cooperazione, di grettezza e di oblatività (e molte altre coppie di termini potrebbero essere evocate). Forse partire da qui è più utile che deprecare virtuosamente la “indifferenza”.
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