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MORIRE DI CARCERE
A cura di Valentina Calderone e Luigi Manconi

EDITORIALE

Secondo Ristretti orizzonti, la più autorevole fonte di informazione sul sistema penitenziario italiano, oltre il 50 % delle morti che avvengono in carcere si devono a “cause da accertare”. Sia chiaro: non si vuol dire, con ciò, che quelle morti siano tutte sospette. Si intende segnalare, piuttosto, come nel carcere si realizzi una sorta di ricorrente “abbandono terapeutico”. La deficitaria assistenza sanitaria, resa ancora più fragile dal crescente sovraffollamento, non permette – nonostante l’impegno di molta parte degli operatori sanitari – cure e terapie adeguate. Non solo: appena qualche giorno fa un agente di polizia penitenziaria è stato rinviato a giudizio per omissione di soccorso, a proposito della morte di Aldo Bianzino. A parte il caso specifico, si può dire che il sistema penitenziario è un regime dove l’omissione di soccorso costituisce, se non la regola, una prassi frequente, potentemente agevolata dalla disorganizzazione e dalla carenza di personale. Poi c’è l’opacità del carcere, la sua impermeabilità allo sguardo esterno e a controlli imparziali, la sua irreparabile separatezza. In quella dimensione grigia, tutto può accadere: anche gli abusi e le violenze, che sono come una sorta di tentazione permanente, pronta a precipitare. E quando precipita, risulta in genere taciuta e occultata, trascritta come “incidente” o “caduta dalle scale”. In queste pagine raccontiamo cinque storie, tra le molte (decine e decine) che vengono segnalate come meritevoli di approfondite indagini. Non sono nemmeno le vicende più drammatiche e contraddittorie: sono quelle, piuttosto, delle quali è stato possibile ricostruire la dinamica. Altre, tante altre, vengono – come si è detto – semplicemente rimosse. Queste pagine vogliono contribuire a non seppellire, una seconda volta, i corpi e le biografie di quei detenuti ridotti al silenzio.

FRANCO SERANTINI
Colloquio di Oreste Pivetta con Corrado Stajano

Sarebbe oggi vicino ai sessant'anni.  Era nato a Cagliari il 16 luglio 1951, morì a Pisa il 7 maggio del 1972, dopo lunga agonia, ammazzato dai colpi di manganello, dai pugni, dai calci di alcuni agenti della Celere di Roma, dall'indifferenza di medici, carcerieri, magistrati... "Il posto dove fu colpito a morte è sul Lungarno Gambacorti di Pisa, tra via Toselli e la via Mazzini...". Così comincia il libro di Corrado Stajano, "Il sovversivo", dove si racconta "vita e morte dell'anarchico Serantini". Riletto quasi trentacinque anni dopo la pubblicazione e trentasette dopo quei fatti di Pisa dà la sensazione tremenda di una cronaca d'oggi o solo di pochi mesi fa: sembra d'essere a Genova nei giorni del G8, Franco Serantini pare Federico Aldrovandi o assomiglia, ancora più vicino a noi, a Stefano Cucchi. "Una morte questa di Stefano - dice ora Corrado Stajano - che sarebbe passata nel silenzio, se non ci fosse stata una sorella combattiva, se non ci fosse stata quella famiglia che ha avuto il coraggio di opporsi. Contro la verità, mi pare d'assistere a storie, che ho già vissuto, di deviazioni e di bugie". La morte di Serantini non passò sotto silenzio. Ai suoi funerali (e sono tra le pagine più belle e commoventi del libro), il 9 maggio, un fiume di gente. I detenuti del carcere Don Bosco, dove Serantini aveva trascorso le ultime ore, inviarono un mazzo di margherite. Franco Serantini era nato senza famiglia, abbandonato in un brefotrofio. Fu dato in affidamento a una famiglia siciliana, visse in istituto a Cagliari. Quando arrivò ai diciassette anni, un'esistenza di solitudine, decisero che si rendeva utile il ricovero in riformatorio.  Serantini era soltanto chiuso di carattere, soffriva l'autorità (o l'autoritarismo), ma non aveva mai commesso un reato: tuttavia fu così destinato... Serantini giunse a Firenze (all'Istituto di osservazione per i minori scoprirono che il suo quoziente di intelligenza era 1,02, quando la media è di 0,70), venne dirottato al centro di rieducazione maschile Pietro Thouar di Pisa, in semilibertà: di giorno poteva uscire. Il riformatorio è la via della maledizione: Serantini si salvò. Era il Sessantotto quando Serantini arrivò a Pisa. Si lasciò prendere dalla politica, cominciò a partecipare alle assemblee degli studenti, trovò persino un lavoro. Prese la licenza media e cominciò a frequentare un istituto professionale. Divenne anarchico. A Pisa giravano squadracce fasciste: le aggressioni si ripetevano, ma la polizia caricava gli antifascisti, quando protestavano. La politica nelle strade era anche questa. A Roma, al governo si era esaurita l'esperienza del centrosinistra, le elezioni furono indette per il maggio dell'anno successivo, il 1972.  Il 5 maggio Giuseppe Niccolai, deputato missino, avrebbe parlato in Largo Ciro Menotti, nonostante le tensioni alle stelle di quei giorni. Per quella giornata arrivarono a Pisa rinforzi di polizia, anche ottocento agenti del I Raggruppamento celere da Roma. Più cinquecento carabinieri, più cento carabinieri paracadutisti, più i reparti della ps di stanza in città. Che fu una città sotto assedio, che mi ricorda Genova. "Mi immagino - racconta Corrado Stajano - Serantini solo in mezzo alla strada. Questo dicono tutte le testimonianze. Solo e inerme in Lungarno Gambarcorti. Sarebbe potuto fuggire come gli altri quando la polizia aveva sfondato la barricata. Ma non si mosse, invece. Invece lo assalì un nugolo di agenti, che lo massacrarono di botte, con ferocia, con crudeltà. Un ragazzo che non aveva alzato neppure una mano...". A Pisa qualcuno tentò di intervenire. Il commissario Pironomonte cercò con l'arresto di sottrarre Serantini alla furia degli agenti e pochi giorni dopo si dimise. Fu un'eccezione. Ma gli altri. Gli altri... Non solo i poliziotti che picchiarono. Anche il medico che visitò Serantini all'ingresso in carcere e che non ordinò il ricovero di un ragazzo che non si reggeva in piedi con la testa sfondata, il magistrato che continuò a interrogarlo in quelle condizioni, i secondini che non intervennero malgrado i richiami del compagno di cella di Serantini. Sta di fatto che tutto si ingarbugliò tra reticenze, bugie, conflitti giudiziari, quando avocazioni e trasferimenti di magistrati intervennero pesantemente sull'inchiesta. In questo senso credo che Serantini sia stato ucciso due volte: una dalla polizia, la seconda dalle istituzioni che non gli hanno reso giustizia. Con un bravo giudice istruttore, Paolo Funaioli, in conflitto con il procuratore generale di Firenze, Calamari, che io definisco un personaggio da vetrata medioevale. Sarebbe bastato leggere le perizie medico legali...".
L'ex democristiano Giovanardi ha detto che Stefano Cucchi è morto perchè era drogato e anoressico." I periti scrissero che Franco era portatore di una voluminosa milza, da bambino aveva avuto la malaria, aveva le ossa della testa più sottili del normale e quindi aveva una minore resistenza ai colpi".


MARCELLO LONZI
Marcello Lonzi muore nel carcere delle Sughere, Livorno, l’11 luglio 2003. Basta guardare le foto su internet  per riconoscere sul suo corpo  inequivocabili segni di percosse. Nella prima autopsia si riscontrano rottura di una costola, escoriazioni, lesioni al volto e presenza di ferite alla testa. Niente di tutto questo viene giudicato rilevante ai fini dell’individuazione delle cause della morte, che viene imputata a “evento naturale per patologia spontanea”. Sarebbe caduto accidentalmente all'interno della sua cella, colpito da un infarto. Quei segni (tutti) se li è provocati precipitando contro un oggetto contundente. Il caso viene archiviato. Il 14 luglio 2006 viene presentata dalla madre di Marcello, Maria Ciuffi, la richiesta di riapertura delle indagini alla quale viene allegata una consulenza medico-legale di parte. Emergono così le molte lacune presenti nella prima rilevazione autoptica: esami che dovevano essere eseguiti ma che non sono mai stati fatti; elementi essenziali tralasciati, come il luogo in cui viene rinvenuto il corpo e la sua posizione; macchie e strisce di sangue presenti per tutto il corridoio; mancata individuazione del corpo contundente contro il quale Marcello sarebbe “caduto”. Non c'è dubbio che quelle lesioni siano incompatibili con una caduta accidentale, e, pur essendo vero che la morte è avvenuta, come è ovvio, per arresto cardiaco, in un soggetto perfettamente sano quell'infarto è stato provocato da un “evento stressante”. A questo punto le indagini vengono riaperte e la salma riesumata. Emergerà che non una, ma otto, sono le costole rotte e che è fratturato anche lo sterno. La spiegazione?  Massaggio cardiaco effettuato male e tutto il resto compatibile con una caduta accidentale. Nel settembre 2008 viene indagato per omicidio preterintenzionale il suo ex compagno di cella. Sembra utile evidenziare come dalla visita medica, effettuata allora, sul suo corpo non sia stato trovato alcun segno di colluttazione. Marcello dunque si sarebbe fatto pestare a sangue dal suo compagno di cella e amico senza difendersi, restituirgli un graffio, un pugno, senza lasciargli neanche un livido a fronte di tutti quelli che sono stati lasciati a lui. Forse, sarebbe più plausibile cercare la verità altrove, partendo per esempio da alcune dichiarazioni del Pm Antonio Giaconi, rilasciate al Corriere di Livorno: “nel corso delle indagini ho avuto modo di constatare che nel carcere delle Sughere alcuni agenti erano soliti picchiare i detenuti” . Forse, si è sulla buona strada.



GIOVANNI LORUSSO
Giovanni Lorusso muore a Palmi il 17 novembre 2009. Stava scontando una condanna a 4 anni e 5 mesi di reclusione per il furto di uno zaino a Rimini, la recidività e altre aggravanti hanno determinato questa pena sproporzionata. Per due volte ha chiesto gli arresti domiciliari, anche per poter andare a curare la sua tossicodipendenza, e per due volte gli sono stati negati. Quando finalmente arriva il provvedimento di scarcerazione della corte d'appello di Bologna passano più di 24 ore senza che nessuno glielo notifichi. Comunque non fa in tempo a ricevere la notizia, viene trovato esanime nella sua cella probabilmente a causa del gas inalato da una bomboletta da cucina. Forse si è suicidato, aveva già provato a farlo, lo ha scritto in una lettera alla sorella dopo il suo trasferimento dal carcere di Rimini a quello di Ariano Irpino. A Rimini stava abbastanza bene e aveva trascorso il primo anno di detenzione senza problemi. Ma Ariano Irpino è stata tutt’altra storia. Non parlava solo del suo tentativo di suicidio, in quella lettera: lamentava di essere in isolamento da più di due settimana, di non avere il televisore, nessuno con cui parlare, di patire il freddo. Diceva anche che la frattura alla mano di qualche settimana prima non derivava da un pugno dato al muro, sono stati i poliziotti, a procurargliela. Chiede aiuto alla sorella, da due giorni sta facendo lo sciopero della fame, vuole essere trasferito in Lombardia, le chiede di parlare con l'avvocato, di denunciare quello che gli stanno facendo lì dentro. Viene trasferito di nuovo. Carcere di Palmi, Reggio Calabria. Non sappiamo cosa ci sia di vero in quello che scrive, di sicuro la sua versione dei fatti non sorprende, e, proprio per la sua estrema plausibilità, dovrebbe essere tenuta in conto ed approfondita. Possiamo però parlare con più precisione di quello che di certo sappiamo. E la domanda che ci poniamo è: perché quel nuovo trasferimento, in un luogo ancora più lontano, quando si era comunque in attesa della decisione della Corte sulla sua scarcerazione? Perché l'isolamento, il freddo, l’abbandono? Il Procuratore di Palmi, Giuseppe Creazzo, rilasciava qualche giorno fa questa dichiarazione: “Abbiamo in corso indagini per stabilire eventuali responsabilità, non posso dire molto. Il nostro compito e' verificare i rilievi penali, quelli morali sono su un altro piano". Non siamo così sicuri che, in presenza di una morte avvenuta in carcere, i “rilievi morali” non abbiano una loro pregnanza anche penale e certamente ne hanno una amministrativa.



ALDO BIANZINO

Aldo Bianzino muore nel carcere di Perugia il 14 ottobre 2007. Era stato arrestato tre giorni prima, insieme alla moglie Roberta gravemente malata, dopo il ritrovamento nel loro giardino di alcune piante di marijuana. La visita medica all’ingresso del carcere lo trova in buona salute. Domenica, alle ore 8.30, un medico del 118 dichiara il decesso. Dalle foto e dai verbali il corpo risulta sdraiato a terra con indosso solamente una maglietta (non sua), gli occhi fissi, un orecchio tumefatto, labbra e mucose già cianotiche, segno che la morte è avvenuta da tempo. Un detenuto testimonia che Aldo il giorno prima viene prelevato dalla sua cella due volte, mentre dai verbali risulta solo un’uscita, senza però indicazioni circa il motivo e l’orario. Un altro compagno di sezione dichiara che Aldo ha chiesto più volte un intervento medico nel corso della notte, e non è stato ascoltato. Roberta (ancora in stato di fermo) viene chiamata da un vice ispettore capo che non le comunica la morte del marito, ma solo il suo trasferimento in ospedale. Anche il direttore del carcere le fa visita, non la informa del decesso e dichiara di aspettare notizie dall’ospedale. Mentre viene scarcerata, chiede quando potrà rivedere Aldo. Questa la risposta: “martedì, dopo l’autopsia”. Giuseppe Petrazzini, il magistrato titolare dell’ordinanza di perquisizione e di  arresto, è lo stesso che continuerà ad occuparsi del caso. La prima autopsia rileva lesioni al fegato, alla milza, al cervello e due costole rotte. Viene aperta un’indagine contro ignoti per omicidio volontario. La successiva autopsia non fa più menzione delle costole rotte né dello spappolamento della milza, riscontra invece un distacco del fegato e ipotizza la morte per aneurisma cerebrale, referto poi successivamente confermato. Nell’ottobre 2008 il Pm chiede l’archiviazione del procedimento contro ignoti, successivamente respinta dal Gip. Al momento l’unico indagato, per omissione di soccorso e falsificazione dei registri, è un agente di polizia penitenziaria, rinviato a giudizio il 25 novembre scorso. Il prossimo 11 dicembre, il tribunale dovrà pronunciarsi sulla seconda richiesta di archiviazione. Intanto è accaduto quello che Roberta diceva di temere di più: che il loro figlio, non ancora diciassettenne, Rudra, rimanesse solo. Lei se n’è andata a giugno mentre era in attesa di un trapianto.


NIKI APRILE GATTI

Niki Aprile Gatti muore nel carcere di Sollicciano, Firenze, il 24 giugno 2008. Il giorno dopo la convalida dell’arresto viene trovato impiccato nel bagno della sua cella. La ricostruzione delle sue ultime ore è piena di lacune: discrepanti le dichiarazioni dei compagni di cella, così come quella di un agente penitenziario. Anche l’esame autoptico rivela numerose incongruenze. Prima evidenzia che si è impiccato usando un cordino e dei jeans, ma i segni dei jeans sul suo collo non ci sono, c’è solo il segno del cordino, troppo esile per reggere i 92 kg del suo corpo, così come è risultato insufficiente, per portare a compimento un intento suicida, lo spazio esistente tra il pavimento e il soffitto del bagno. Il 10 ottobre la Cancelleria della Procura di Firenze comunica che è stato smarrito l’atto di opposizione alla richiesta di archiviazione. Fortunatamente l’avvocato ne aveva conservato una copia. A tutt’oggi non ci sono indagini aperte sulle cause della sua morte. È stata fatta una interrogazione parlamentare (aprile 2009) e la Repubblica di San Marino (dove ha sede l’azienda per cui Aprile Gatti lavorava) ha chiesto una rogatoria internazionale (agosto 2009). Ad entrambe, il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, non ha ancora risposto.



MANUEL ELIANTONIO

Manuel Eliantonio muore nel carcere di Marassi, Genova, il 25 luglio 2008. Aveva appena compiuto 22 anni. Dinamica non definita e patologia non identificata è la causa del decesso. Inalazione di gas butano, scriveranno i giornali. Manuel aveva problemi di droga, ma i segni visibili sul suo corpo non se li può essere procurati respirando il gas. Volto livido, ematomi, sangue raggrumato sulla fronte e sotto il naso, forse ossa rotte. L'autopsia non rileva niente di tutto questo, non vengono fatte lastre così come nessun altro tipo di analisi interna. Manuel, due settimane prima di morire, scrive una lettera alla madre: “mi ammazzano di botte almeno una volta alla settimana. Ora ho solo un occhio nero, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li risputo ma se non li prendo mi ricattano. Sono in isolamento almeno 4 giorni alla settimana”. Risulterebbe che gli sono state somministrate dosi massicce di medicinali, pericolosi per la sua patologia epatica. È morto a poche settimane dalla scarcerazione. Stava scontando una pena di 5 mesi per resistenza a pubblico ufficiale.
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Numero dei detenuti presenti su 43084

61.481 detenuti
il 7/2/2014


Osservatorio sulla contenzione
a cura di Grazia Serra

  
   

   
    a cura di Francesco Gentiloni

" Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri"
Voltaire

 


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