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Trovare una “virtù” nella colpa

Ci sono dei luoghi in cui la parola ha bisogno di affinare un ascolto tutto particolare per potere in qualche modo accogliere i vissuti e riaprirli alla vita. Sono i luoghi in cui si riflette un rapporto  tra noi che si è fatto così violento, così strumentale da rompere quell’alleanza esenziale, quella del palmo della mano dell’origine, quella dell’affidamento reciproco. La violenza ha rotto il patto e in qualche modo ha svelato la potenzialità del male che possiamo agire tra noi. Potenzialità che ci abita dall’origine.
Quel palmo della mano, che in origine è stato cura, può soffocare, può stringere, può tenere per sé, può impedire la libertà del figlio, può abusarne. È un palmo della mano in cui abita tutta l’ambiguità dell’umano.
Quando il patto è rotto, quando la violenza si è scatenata e ha rotto l’innocenza originaria ecco che si fa strada la necessità del giudizio, la necessità di ristabilire la norma, di ribadire il patto. Questo non può che passare attraverso una condanna. Anche lì, nella condanna può abitare una “parola definitiva” che fa giustizia, ristabilisce l’equilibrio, restituisce e risarcisce. Ma proprio in quel momento quella parola condanna, se resta solo parola giudizio ferma la vita: ci fa restare tutti come statue di sale come la moglie di Lot che “sosta nel giudizio”, girata a guardare Sodoma nel peccato. Sostare nel giudizio con una parola condanna fa finire la fecondità della parola, la riconduce all’esercizio della forza che ha giudicato. Non la fa rinascere generativa, non fa nascere un nuovo vissuto. Ci vuole una parola ulteriore, successiva, che non può nascere subito, troppo presto, e troppo facilmente. Prima un silenzio, prima una nuova capacità di ascolto, quell’ascolto che noi possiamo attivare girandoci verso il volto del condannato.
Lo scontro tra il corpo recluso e lo spazio interiore può essere drammatico. Specie se non si incontra uno sguardo che impedisca l’avvelenamento nel disprezzo.
Può essere più forte l’esigenza di preservare l’antica dipendenza da altri, quella che garantiva sicurezza, se la distanza pare allargarsi insopportabilmente.
Si vuole prolungare il controllo e l’autorità dell’altro su di sé, in sé. È un poco una fuga dalla forza delle pulsioni e quindi da un corpo che in modo nuovo apre spazi, sogni, fantasie. Che stringono in tensioni e paure. Che paiono, in qualche momento, insostenibili perché allontanano dalle consolidate protezioni, e dalle persone la cui presenza le ha garantite dentro e fuori di sé.
Ma insieme si sente e si vuole una nuova tensione, una nuova esperienza di vita. E si chiede tregua, sospensione da  situazioni insopportabili, che spaccano paesaggi interiori e identità. Situazioni che hanno un effetto di frattura. Raramente lette in un racconto con altri e in un ascolto di altri: restano così non rielaborate e ri-definite.
Non vedono più libertà, né riscatto. Si passa per processi di cristallizzazione interiore, ristretti in uno spazio interiore dove manca l’ossigeno per essere e pensarsi altri, diversi.
Sono gli incontri che aiutano a orientare tensioni e energie, a far sentire capaci di parole o di gesti nell’incertezza e nella fragilità. La tensione autodistruttiva, la sensazione d’essere sospesi sul quasi-nulla spesso non trovano punti di sostegno, luoghi di lettura, di contaminazione o di scambio con i flussi vitali della speranza e del progetto.
Come riprendere una possibile significatività, una  rinascita dei gesti e delle parole? Forse trasformando in pensiero, in parola il conflitto, la tensione, anche la paura che il corpo ospita. Dare parola a ciò che si sente: alla solitudine ed alla separazione così intensamente temute. Perché l’attesa di elaborare un nuovo sentimento etico, una distensione nuova di nuove relazioni, e la capacità di progetto e di simbolo acquistino spazio, e tempo,  e pazienza,.
La colpa  non è originaria, anche se indietro non si torna: “l’essere colpevole - annota Paul Ricoeur - non può essere tolto a nessuno”, perché si sarebbe Dio. Ma c’è un dono, e c’è un’attesa, che sono originari, e che rimangono anche oltre la (e nella) esperienza del limite, del fallimento, della colpa. C’è un dono, come c’è l’amore, c’è la gioia, c’è la saggezza: nessuna di queste realtà è prodotta da noi. In esse ci ritroviamo. La profondità dell’esperienza della colpa – c’è chi parla addirittura di “virtù della colpa” – può condurre a questo nuovo contatto con l’origine. Chi non è colpevole? Nessuno. C’è qualcosa che è dovuto al colpevole? Sì, la “considerazione”, che è il contrario del disprezzo. Gli è dovuto il riconoscimento della dignità. (P. Ricoeur, 2003)

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